La resistenza passiva deve e può funzionare mentre la forza non può che essere sconfitta
Nel 1909, Mohandas Gandhi aveva già smesso i panni di avvocato di città, impacciato, timido e goffo, per vestire quelli del politico. Aveva quarant’anni e forse mai si sarebbe scosso dal suo torpore intellettuale ed etico se non avesse accettato, quindici anni prima, un caso per la sua ditta indiana da risolvere in Sudafrica. Era partito sapendo poco del mondo – aveva visitato l’Inghilterra per studi, ma nient’altro – e degli esseri umani – apparteneva a una casta privilegiata, in India, quella dei commercianti, e il suo nome, Gandhi, significa droghiere –, ma quando era arrivato nello stato africano aveva dovuto fare i conti con l’uno e con gli altri.
Aveva visto il regime dell’apartheid e aveva capito che i fautori di quella prigionia erano nientemeno che gli stessi che dominavano la sua India. Aveva visto anche la crudeltà degli uomini che schiacciavano altri uomini fino alla schiavitù, e aveva capito che la situazione non era così distante da quella che vivevano i meno abbienti della sua terra. Poi erano accaduti dei fatti personali, ma che avevano acceso in lui qualcosa: l’espulsione dal tribunale per non essersi tolto il turbante, la cacciata dalla prima classe di un treno, il pestaggio su una diligenza per essersi rifiutato di sedere sulla pedalina invece che all’interno. Sembra il climax di una storia, e forse è proprio questo, perché la svolta avviene qui, e non si torna indietro.
Non appena gli uomini vivono del tutto in accordo con la legge dell’amore propria dei loro cuori e che ora gli è stata rivelata, legge che esclude la resistenza violenta, e perciò si allontanano da ogni forma di partecipazione alla violenza – non appena questo accade, non solo centinaia di persone non saranno in grado di ridurre in schiavitù milioni di uomini, ma nemmeno milioni di uomini saranno in grado di ridurre in schiavitù un solo individuo.
Nel 1909 era in carcere da tre anni, a Johannesburg. C’era finito perché aveva dato inizio a una protesta contro il censimento dei cittadini indiani del Transvaal – un provvedimento che considerava razzista messo in atto col solo scopo di tenere sotto controllo i suoi compatrioti. Durante le manifestazioni e gli scioperi, Gandhi elaborò il principio cardine della sua filosofia: la satyagraha. Una parola che si è inventato lui e che ha origine dal sanscrito. È composta da saty, che è la verità, e da graha, che è la fermezza. Si vede bene racchiuso tutto ciò di cui Gandhi rimase convinto per la sua intera vita: la fermezza e la forza vengono dalla verità. Non c’è bisogno di altro, per conquistare, perché quando si è nel vero si ha tutta la forza che serve.
Mentre era in prigione lesse molto, e tra gli altri libri ce n’era uno di Lev Tolstoj, Il regno di dio è in voi, che lo colpì così tanto che decise di scrivere all’autore. Dalla sua cella, Gandhi scrisse a Tolstoj fino alla morte dello scrittore, nel 1910, scambiando con lui idee sulla teoria della nonviolenza, sulla spiritualità e sul mondo. Persino – ed è ciò che deve aver conquistato Tolstoj, che era un personaggio senz’altro sui generis – nella prima lettera Gandhi si permise di fare un appunto al suo libro. Non era d’accordo su come si trattava la reincarnazione, e glielo disse.
Evidentemente è frutto del vostro modo di guardare al mondo. Nella conclusione sembra che vogliate fare cambiare idea al lettore sulla reincarnazione. Potrà sembrare impertinente da parte mia dire quello che sto per dire? Ignoro se avete studiato con attenzione la questione
Sembrava impertinente, sì. Ma cos’era scrivere all’idolo sacro della letteratura russa a confronto della lotta che stava conducendo – e di quella che l’attendeva?
Quando fu liberato tornò in India, e lì cominciò il suo impegno per liberarla dal dominio britannico. Boicottò i prodotti tessili che arrivavano da fuori – chiese a chi lo seguiva di dedicare un’ora al giorno a fabbricarsi un khadi senza ricorrere ai vestiti importati dall’Inghilterra –, costruì scuole e ospedali durante un lungo viaggio per tutta l’India, percorse a piedi oltre 300 chilometri durante la marcia del sale. Ognuna di queste azioni lo rendeva l’esempio da seguire, il baluardo di una lotta che non si conduceva con le armi, ma con qualcos’altro, la verità, appunto. E le concessioni arrivarono, poco a poco, fino all’indipendenza dell’India.
Spesso si fa l’errore di credere che sia andato tutto liscio, che l’impegno di Gandhi si sia disposto nel tempo e nello spazio senza intoppi, fino ad arrivare alla sua naturale conclusione, ma non è stato così. I suoi scioperi e le sue proteste, più di quanto si voglia ammettere, erano anche diretti verso i suoi: quando gli scioperanti cedevano alla violenza lui li redarguiva dimostrando che la verità non ne aveva bisogno. L’educazione di Gandhi fu così totale e rivoluzionaria da richiedere un tempo lungo per essere assimilata, capita e sopportata fino in fondo. È la via più difficile, quella della nonviolenza, ma l’unica percorribile. Più facile a dirsi che a farsi, ma abbiamo avuto un buon maestro.
Vivi come se dovessi morire domani, impara come se dovessi vivere per sempre
Di
| Piano B, 2019Di
| Feltrinelli, 2014Di
| Bibliotheka Edizioni, 2020Di
| Garzanti, 2019Di
| Einaudi, 2006Di
| EL, 2016Di
| Bompiani, 2003Gli altri approfondimenti
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