Occorre lottare contro la lingua affinché non imponga le sue formule, i suoi cliché, le frasi fatte, tutto ciò che caratterizza così bene un cattivo scrittore.
Una lingua che scalpita, la sua. Che si dimena e si divincola da qualsiasi struttura di pensiero o linguaggio che voglia irretirla, alla ricerca di libertà.
Julio Cortázar tesse la letteratura così come Penelope la sua tela: egli ne fa e ne disfa la trama, scucendola e ricucendola in punti diversi, nell’attesa di giungere alla sua versione più autentica; quella che meglio rispecchia l'io frammentato che la origina, e che è originato dal caotico gioco del mondo.
Nato nel 1914 nei sobborghi di Bruxelles, da genitori argentini, con un padre diplomatico che abbandona la famiglia quando Cortázar è ancora bambino, l’autore trascorre la vita tra Argentina e Francia: due luoghi che appaiono spesso in filigrana nella sua scrittura o si conquistano uno spazio centrale nelle sue opere, al pari delle azioni che vi si snodano, come in Rayuela.
Rayuela, il gioco del mondo, è infatti l’antiromanzo per eccellenza dello scrittore, dove l’esperienza parigina e quella argentina si giustappongono, o meglio si rimandano a vicenda in un perfetto gioco di specchi. Composto da 155 capitoli, le pagine di quest’opera caleidoscopica possono essere lette nell'ordine specificato nell’incipit o in ordine di comparizione, un espediente che fa di questo romanzo un inno letterario all'invenzione.
Ma non è ancora il momento di parlarne, perciò rifacciamo un salto indietro, in pieno stile Cortázar.
La sua formazione avviene all’insegna della contaminazione: filosofi come Montaigne, Platone, Cocteau costellano le sue letture di ragazzo, mentre traduce Jean Giono, André Gide, Chesterton, e ascolta tanta musica, in particolare il jazz (cui dedicherà più in là, nel 1959, L'inseguitore).
Nel 1941, a ventisette anni, pubblica un lungo articolo su Rimbaud, firmandosi Julio Denis; nel 1948, per la mitica rivista Sur diretta da Victoria Ocampo, scrive Muerte de Antonin Artaud e l’anno dopo si dà al «poema drammatico», Los reyes, «una cosa a metà fra Valéry e Saint-John Perse».
Dal 1946 comincia a lavorare a un vasto studio su John Keats, che rielabora appena sbarcato a Parigi, ma che uscirà postumo per Fazi editore, dal titolo: A passeggio con John Keats. In un excursus letterario lungo seicento pagine, l'autore mette sì al centro la vita e la poesia di un poeta da lui molto amato, ma non perde occasione di ritrarre sullo sfondo Buenos Aires, i profumi e le luci della metropoli argentina, le vastità sterminate della pampa oltre i suoi confini, i suoi amici poeti amici, i loro versi e le loro discussioni notturne, avvolti dal fumo delle sigarette e dall'odore del caffè.
Scrivendo del poeta inglese, l'argentino delinea un proprio alter ego oltreoceano, con il quale condivide una certa idea della vita, della scrittura e della missione poetica. In questa sorta di zibaldone, infatti, Cortázar coglie come sempre l'occasione per stilare la propria poetica dell'hic et nunc:
Il poeta conosce attraverso il corpo, guarda dalle mani, dai capelli... La sua mano si appoggia sulla corteccia dell'albero e ascolta. I suoi occhi, mani libere che palpano l'aria, le chiome degli alberi, fiutano nella pietra e nella curva del vaso un essere concreto e sufficiente, hic et nunc
Il concetto di libertà è il fil rouge che attraversa tanto la poetica dell'autore quanto la sua irrequieta vita. Da un lato, infatti, c’è la scrittura che sgorga impetuosa da una spinta “futuristica” a scardinare la lingua dall’interno nell’intento di liberare, appunto, le parole. Parole in libertà è infatti lo slogan che nel 1912 sintetizzava il pensiero de Il Manifesto della letteratura futurista, e che faceva dello spirito di contraddizione il proprio filo conduttore, proponendosi di distruggere ogni sorta di nesso sintattico per fare spazio all’onomatopea e all’analogia.
Questo stesso slogan sembra dipingere oggi perfettamente lo stile di Julio Cortázar, riassumendone la visione secondo la quale ogni parola è una sfida, ogni frase una lotta e ogni romanzo una guerra, dove le armi però non sono armi mortali, ma hanno a che fare con l'ironia, il paradossale, il sovvertimento delle regole, il gioco.
La vera profondità di un uomo è l’uso che fa della propria libertà
Con Rayuela, il gioco del mondo, nel 1963, Cortázar scrive e porta a compimento massimo la sua concezione del mondo. Come già anticipato, l'acrobatico libro è suddiviso in 155 capitoli e in tre parti, Dall'altra parte (a Parigi), Da questa parte (a Buenos Aires), Da tutte le parti. Si tratta, di fatto, di un libro «che è molti libri», che si può leggere dal primo all'ultimo capitolo oppure «cominciando dal capitolo 73 e seguendo l'ordine indicato a piè pagina», oppure a casaccio. Un'invenzione letteraria che la dice lunga sull'abito esistenziale che abbiamo visto indossare fin qui il nostro autore.
Tutto è caso. Tutto. Lo insegnavano già i filosofi, e si trova in un sacco di libri. Allora bisogna andargli contro, e io ho inventato il controcaso, che è uno stile di vita
Da questa facoltà, concessa al lettore, di comporre e scomporre la storia a proprio piacimento, nasce Componibile 62, un romanzo che germoglia dal seme di quel gioco del mondo e si articola in una storia caleidoscopica e multiforme, in cui l’azione può trascorrere simultaneamente a Parigi, Londra o Vienna, e i personaggi passano senza sforzo dal dialogo al monologo, in una continua ricerca di alternative esistenziali e letterarie.
In ogni caso, durante il suo lungo percorso letterario Julio Cortázar ha sempre continuato a scrivere poesia, considerandola un rifugio, un luogo dove tornare a casa. Quando ormai sapeva di essere prossimo alla morte, che lo colse il 12 febbraio del 1984 a Parigi, la sua ultima volontà fu quella di sistemare il suo corpus poetico nel libro Salvo il crepuscolo, oggi considerato dalla critica il testamento artistico dello scrittore argentino.
In queste pagine, un Cortázar ormai consacrato opera una sorta di metaracconto del suo stesso compito di selezione e sistemazione della raccolta: lo vediamo rovistare in vecchi cassetti, trascrivere versi recuperati da fogli e scontrini, da pagine strappate o preziosi quaderni di carta giapponese, tracciando così una cronistoria interna al libro stesso.
Le forme si alternano con ironia e profondità, come in ciascuna delle opere dell'autore argentino, mentre vediamo sfilare davanti ai nostri occhi una serie di figure chiave con cui l'autore instaura un ultimo, ideale, dialogo: da Poe a Holderlin, da Giulio Cesare a Rilke, da Marco Polo a Janis Joplin.
Con che liscia dolcezza
mi solleva dal letto in cui sognavo
profonde piantagioni profumate,
mi passa le dita sulla pelle e mi disegna nello spazio, in bilico, finché il bacio
si posa curvo e ricorrente...
così che a fuoco lento abbia inizio
la danza cadenzata dell'incendio che ci intreccia in raffiche, in spirali, l'andirivieni d'un uragano di fumo—
(Perché, poi,
quel che resta di me
è solo un annegare nella cenere
senza un addio, senza nient'altro che il gesto di liberare le mani?)
Leggere Julio Cortázar, oggi, significa imparare a leggere un po' meglio se stessi e il mondo che abitiamo. Perché in fondo non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo: liberi e ineffabili.
In fondo siamo così liberi, viviamo così poco legati a un passato o a un futuro, che l’ineffabilità sembra la nostra essenza più autentica
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