Un pezzo di storia della seconda metà del Novecento ormai divenuto mitologia.
Del rock, naturalmente.
Prima alla testa dei Velvet Underground, la quintessenza della sperimentazione applicata al rock, un’esperienza unica, nata e cresciuta all’ombra della Factory, la comunità artistica newyorkese con il genio della Pop Art Andy Warhol a dettare la linea, e poi, da solista, tra alti e bassi, grazie a una serie di album da cinque stelle, nei quali non ha mai avuto paura di confrontarsi con i lati oscuri, suoi e dell’esistenza umana, per parafrasare il titolo della sua canzone più famosa, Walk On The Wild Side.
Il 27 ottobre 2023 sono dieci anni esatti che Lou Reed se n’è andato.
Tuttavia, della leggenda del rock alternativo di Brooklyn, della sua musica e della sua vita, si continua a scrivere e a parlare. E se sei anni fa, in quello che avrebbe dovuto essere il suo settantacinquesimo compleanno, Laurie Anderson, la moglie-collega che lo ha accompagnato nella sua ultima e forse più pacificata stagione di vita e di arte, annunciò di aver donato alla New York Public Library for the Performing Arts la raccolta completa di scritti e registrazioni, provenienti da una carriera che si è sviluppata per oltre mezzo secolo, è di queste settimane l’uscita di una nuova biografia di Will Hermes Lou Reed: il re di New York che potremmo definire definitiva, senza che forse il libro ne abbia la pretesa, perché riesce nella non facile impresa di restituirci, senza reticenze ma, al contrario in modo oggettivo, la complessità di una rockstar dalla vita divisa tra convenzioni borghesi e un’irresistibile attrazione per la trasgressione.
Trasgressione uguale tossicodipendenza, depressione e sessualità fluida.
Tutte cose vissute sulla propria pelle e che Reed ha poi cantato con poetica maestria, in particolar modo nel corso della straordinaria quanto brevissima epopea targata Velvet Underground. Saranno anche stati un flop dal punto di vista commerciale (il fascino scuro e sinistro della band mal si conciliava con l’idealismo hippie in voga in quegli anni), ma con il passare dei decenni ci si è resi conto di quanto quel segreto custodito da pochi sia stato influente dal punto di vista musicale, e di quanti si sono abbeverati alla loro fonte eversiva e nichilista. Da David Bowie ai My Bloody Valentine passando per Patti Smith, i Sex Pistols, Roxy Music, Joy Division e Sonic Youth. Tutti a loro modo un po’ debitori del poeta della metropoli Lou Reed e del suo piccolo mondo malato e paranoico di outsider e sconfitti, figlio della visione condivisa con il “manager” Andy Warhol secondo cui la bellezza andava trovata nel brutto, nel banale e nel disprezzato.
Nei suoi settant’anni di vita, e cinquanta di carriera, Lou Reed ha attraversato innumerevoli fasi contribuendo, con venticinque dischi, una serie di libri, collaborazioni cinematografiche e spettacoli teatrali, a trasformare il rock in una forma d’arte compiutamente adulta. Dagli esordi come paroliere all’incontro con Andy Warhol e alla nascita dei Velvet Underground.
Ma il suo cantato, caratterizzato dall’inconfondibile tono monocorde, al limite dell’apatico, sarebbe rimasto monco se non fosse stata esaltato dalle dissonanze avanguardiste del piano e della viola di John Cale; dalle distorsioni rumoriste dell’altro chitarrista Sterling Morrison; e il drumming rigoroso e mai sopra le righe di Moe Tucker. A detta di molti, The Velvet Underground and Nico, l’album della copertina della banana che si sbuccia made in Warhol per intenderci, uscito nel 1966, e il successivo White Light White Heat (1967), rimangono ancora oggi autentiche pietre miliari del rock. E non si esagera.
Le gemme? Heroin, indubbiamente uno dei suoi testi più crudi, I’m Waiting For The Man, Sister Ray, Sweet Jane.
Finiti i Velvet c’è stato un momento in cui la sua carriera musicale avrebbe potuto finire.
Tant'è vero che, per un certo periodo Lou Reed, ha lavorato come linotipista per la ditta del padre. Poi la voglia di poesia e di rock hanno ripreso il sopravvento. C’è stato spazio per un lungo quanto proficuo secondo tempo di partita per questo artista quantomai complesso e dal carattere super spigoloso, per alcuni persino arrogante, ma secondo Patti Smith «parametro di eccellenza e di integrità». Senza mai venire meno all’immagine di tenebroso angelo del male metropolitano, da solista, Lou ha arricchito il suo straordinario canzoniere e ha conosciuto anche momenti di grande successo commerciale.
Come nel caso del suo secondo album solista, Transformer (1972), prodotto da David Bowie, descritto come «un manifesto nichilista con influenze glam rock», e concentrato di singoli del calibro di Walk On The Wild Side, Satellite Of Love e Vicious, o del disco dal vivo Rock’N’Roll Animal (1974). Spulciando fra i 25 album prodotti in carriera, meritano una menzione anche il doppio a tutto rumorismo Metal Machine Music, indubbiamente il suo lavoro più radicale, e i due lavori che hanno messo nero su bianco l’approdo al rock adulto: The Blue Mask (1982) e, soprattutto, New York (1989), un disco semplice e diretto, dal suono splendido, con il quale da autentico letterato rock ha messo in musica una raccolta di racconti senza filtri sulla sua città, la Grande Mela, di cui per altro ha sempre cantato la bellezza selvaggia. «Niente più cazzate, capelli tinti, robe da frocio drogato del cazzo», aveva detto il signor Reed. «Questo album è stato pensato per venir ascoltato da seduti e senza interruzioni durante i suoi 58 minuti, come se si trattasse di un libro o di un film».
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