Anniversari e Ricorrenze

L’insopportabile fuori: Marina Cvetaeva e la poesia

Illustrazione di Cristina Scotti, 2022, studentessa del Liceo Artistico Volta di Pavia

Illustrazione di Cristina Scotti, 2022, studentessa del Liceo Artistico Volta di Pavia

Tutto ciò che amo lo amo di un unico amore

La poesia – quella buona, onesta, ossessionante – sa che non arriverà mai alla verità. Vi tende, cerca di raggiungerla con ogni mezzo a sua disposizione, dal ritmo all’estetica, ma fallisce; non si ferma, il lavoro della poesia è continuo, ma fallisce sempre, e il poeta riprende, ogni volta che si schianta contro l’impossibilità, daccapo la sua ricerca del vero. Crede di essere una linea che, presto o tardi, piomberà sul nucleo delle cose, che sta immobile al centro del mondo ad aspettare un poeta che lo racconti. Ma la poesia è sì una linea, ma la è anche la verità: e queste due linee sono parallele, non tangenti. Possono anche essere separate da un nonnulla, ma non si incontrano mai, se non all’infinito. Questo, Marina Cvetaeva lo sapeva, e dedicò tutta la sua vita a raggiungere l’infinito in cui poesia e mondo si sarebbero, infine, toccati.

Scrisse poesie su qualsiasi argomento, ma preferì sempre l’amore. È, del resto, il sentimento che più si avvicina al lavoro poetico: irraggiungibile se non a costo di vederlo morire, o, peggio, mentire. Marina Cvetaeva voleva trovare la verità dell’amore, scoprirne gli angoli più reconditi, anche a costo di sprofondarvi e farci sprofondare chi le stava accanto, suo marito Sergej, e i suoi figli, Irina, Alja e Mur. Nelle sue poesie, ciò che emerge con più forza è il sentimento di incommensurabilità tra il suo sentire di poeta – lei non volle mai farsi chiamare poetessa – e il mondo di cui voleva raccontare. Questo spazio, anche minimo, se vogliamo, ma incolmabile, fu la sua passione più grande e, al contempo, la sua ossessione più rovinosa.

Un’anima piena di mondo

Io sono l’effimera schiuma di mare

Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca l’8 ottobre 1892. Suo padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, era professore di storia dell’arte all’università, ma era figlio di contadini: proveniva da una miseria profonda che gli aveva insegnato l’umiltà e la gratitudine. In seconde nozze aveva sposato Marija Alexandrovna Mejn, ma era un compromesso. A lui, quella donna, piaceva, e lei aveva bisogno di qualcuno che la chiamasse moglie, dopo aver fatto scandalo per una relazione clandestina con un uomo sposato di cui era profondamente innamorata. Rinunciò alla carriera di pianista per essere – e ci riuscì – una brava moglie per Ivan e una buona madre per i suoi due bambini nati dal precedente matrimonio. Avrebbe voluto dei figli maschi, ma nacquero due femmine: Marina e Anastasija. Sperò, almeno, che diventassero musiciste.

Ma poi Marija si ammalò di tubercolosi, e l’idillio famigliare che Marina ricorda in tante delle sue poesie si spezò, anche se non del tutto. Cominciarono a cercare un’aria più salubre per le condizioni della donna in giro per l’Europa, in Svizzera, Italia, Germania. Passò anche da Nervi, in Liguria, ma la malattia di Marija non migliorò, e lei cominciò a rimpiangere di non poter vedere le proprie figlie crescere e di aver rinunciato alla vita che la rendeva felice. «Con una madre così – scrive Marina – non potevo che diventare poeta»: una fame di vita che si tramandava di madre in figlia, e che trovò in Marina un compimento efficace e dirompente.

I colori vivaci

Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi

Cvetaeva significa, in russo, dai colori vivaci, e Marina prese quest’etimologia come fosse una predestinazione. Il suo carattere, sin da bambina, era così: dai colori vivaci. Dopo la morte della madre frequentò il ginnasio, poi alcuni corsi di letteratura alla Sorbonne, ma non riuscì a finire gli studi, perché non amava le regole, le imposizioni e voleva scrivere e leggere ciò che piaceva a lei. A diciannove anni, sulle rive del mar Nero, incontrò il suo futuro marito, Sergej Jakovlevič Ėfron, del quale si innamorò con un’intensità che non si smorzerà con il passare del tempo. Ma anche l’idea di relazione non le era congeniale: Marina ebbe numerosi amanti, uomini e donne, che ferirono il marito, ma di cui lei non fece mai mistero. Una persona è troppo poco per capire la verità sull’amore.

Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno più forte. Tutte – di più. Nessuna – così

Con la rivoluzione russa fu costretta a emigrare. Lo spiccato senso dell’individuo e della libertà personale spingevano Marina a non appoggiare le idee dei bolscevichi, e questo la costrinse ad andarsene dalla Russia, sola insieme ad Alja. Irina era morta di fame in un orfanotrofio, cui era stata affidata perché Marina non poteva mantenerla; Sergej combatteva, invece, nell’armata bianca, e da tempo non si avevano sue notizie. Grazie alla presenza di diverse case editrici russe anche all’estero, continuò a pubblicare. Il marito ritornò, i due ebbero un altro figlio, Mur, e Marina frequentò i migliori salotti intellettuali di Parigi, Praga e Berlino.

Il contrasto tra dentro e fuori

Non c'è dolore o rovina, non c’è vergogna o disonore che io non abbia riconosciuto nei miei, nei tuoi mali

Sofocle, Antigone

La vita di Marina Cvetaeva precipitò, però, abbastanza in fretta: non riusciva più a pubblicare, perché molte case editrici russe chiusero, gli amici la abbandonarono, considerandola intransigente e filosovietica, e la figlia Alja tornò in Russia. Si sentiva straniera ovunque, tanto più al pensiero di tornare in quella patria che l’aveva costretta ad andarsene. Per amore della figlia, e anche perché non aveva più denaro per condurre nessun tipo di vita, tornò a Mosca. Lì cominciò una vita indigente, e fu costretta ai lavori più degradanti per racimolare qualche soldo. Non scrisse più nulla, ma vagabondò da un’elemosina all’altra, finché il marito non morì, e finché anche lei non si cominciò a sentirsi schiacciata dal mondo che la circondava.

Il 31 agosto 1941 si impiccò nella catapecchia sulla riva del fiume che aveva affittato una volta tornata in Russia. La poesia, per Marina Cvetaeva, era un modo per suturare le proprie ferite: una volta scomparsa quella panacea miracolosa, le sue piaghe hanno iniziato a grondare. Alla fine, quell’anima piena di mondo debordò senza scampo. Tra ciò che aveva dentro e ciò che vedeva al di fuori, Marina percepiva uno stridore eccessivo. E lei, che fu sommamente libera sempre, che non fu compresa fino in fondo in nessuna delle sue scelte, perché infintamente personali e irraggiungibili, abbandonò quell’universo in fiamme che nulla aveva più da darle e a cui non avrebbe lei stessa potuto dare più niente.

La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava

Boris Pasternak

La poesia di Marina Cvetaeva

Lettere

Di Marina CvetaevaRainer Maria Rilke | SE, 2020

Sette poemi

Di Marina Cvetaeva | Einaudi, 2019

Deserti luoghi. Lettere (1925-1941)

Di Marina Cvetaeva | Adelphi, 1989

Le notti fiorentine

Di Marina Cvetaeva | Voland, 2011

Taccuini 1919-1921

Di Marina Cvetaeva | Voland, 2014

L'amore è arco teso

Di Marina Cvetaeva | Salani, 2021

Lettera all'amazzone

Di Marina Cvetaeva | Castelvecchi, 2020

L' accalappiatopi. Testo russo a fronte

Di Marina Cvetaeva | E/O, 2017

Poesie. Ediz. illustrata

Di Marina Cvetaeva | Feltrinelli, 2014

Scusate l'amore. Poesie 1915-1925. Testo russo a fronte

Di Marina Cvetaeva | Passigli, 2013

Gli altri approfondimenti

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Figlia di un eminente filologo e di una musicista, ricevette una raffinata educazione artistica e cominciò prestissimo a scrivere versi. Nel 1911 sposò uno studente di filosofia, Sergej Efron, che allo scoppio della rivoluzione si arruolò tra i Bianchi. Nel 1922 seguì il marito a Praga e poi si trasferì a Parigi. Tornata in Unione Sovietica nel 1939, fu osteggiata dalle autorità; in preda a una profonda crisi depressiva, si suicidò due anni dopo. Dopo i primi volumi di poesie (Album serale, 1910, e Lanterna magica, 1912), ancora immaturi, serbò un lungo silenzio fino al 1922, anno in cui uscirono contemporaneamente, a Berlino, le raccolte Versi a Blok, Congedo, Psiche, Verste, e il poemetto Lo zar-fanciulla, seguito da Il mestiere (1923) e Dopo la Russia (1925). Negli ultimi anni si dedicò intensamente alla prosa: stralci di memorie e saggi di argomento letterario, in una mirabile prosa lirica dal complesso impianto ritmico.La poesia della Cvetaeva, tra le più originali del Novecento russo, è aliena da qualsiasi sentimentalismo e morbidezza; secco e nervosamente cadenzato, il suo verso si frantuma in unità significanti di altissima tensione emotiva. Riducendo la metafora a violento attrito semantico, sopprimendo i nessi logici normali, la Cvetaeva arriva a trasformare le sue poesie in ruvide trame fonetiche. A questa scrittura convulsa corrisponde, tematicamente, un’enfasi che converte i gesti quotidiani in momenti di esasperata drammaticità e trova nei più appassionati miti femminili della storia russa gli ideali «alterego» della violenta personalità dell’autrice. Benché la Cvetaeva non abbia partecipato ai movimenti d’avanguardia dell’inizio del secolo, la sua ricerca espressiva e il suo sperimentalismo linguistico sono paralleli alle esperienze dei cubofuturisti e, in particolare, a quelle di Pasternak, cui la apparenta la concisione della visione poetica.

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