Sapore di sala

Rambo, i 40 anni di un'opera imprescindibile del cinema americano

In città tu sei la legge, qui lo sono io

Si rivolge così, verso la metà del primo capitolo di First Blood, John Rambo, veterano del Vietnam premiato con la medaglia al valore, a Will Teasle, arrogante sceriffo di Hope, nello stato di Washington.

Si palesa in questa frase uno dei temi fondamentali che emergono dalla saga di Rambo, opera imprescindibile del cinema americano, che quest'anno compie quarant'anni: e cioè quello di una legge che, lungi dall'avere un corpo ufficiale di rappresentanza, appartiene in fondo a chi decide di esercitarla. D'altronde l'America si racconta così fin dai suoi albori, con i western ad esempio, dei quali le dinamiche ritornano in Rambo; nel primo e inaspettatamente anche nel quinto, dove l'ex soldato si barrica per proteggere la propria “dimora”, che sia la foresta fuori Hope o la casa assediata dal cartello messicano, omaggiando quel meraviglioso girare a vuoto in attesa del duello finale, tipico della raffinatezza di quel genere di cinema.

Questo perché quella di Rambo è una saga che più in generale si fa attenta e fine ereditiera di moltissimo del cinema statunitense del passato. Non ne è la prova l'incredibile luce di Rambo II La vendetta, a opera dello storico direttore della fotografia Jack Cardiff? Un uomo che ha fotografato film di Hitchcock, Vidor e Mankiewicz, per dirne giusto tre.

Quel secondo Rambo inoltre, Sly lo scrive a quattro mani con James Cameron, che ne riporta certe atmosfere nei suoi film successivi. Insomma c'è tantissimo cinema in Rambo e, nello specifico, nello straziante personaggio interpretato da Sly, in tutto e per tutto assimilabile a quelli raccontati dalla New Hollywood, solitari e ai margini dell'efficiente società americana. Personaggi expandables, come si descrive John alla bella Co Bao in Rambo 2. Sacrificabile.

In fondo John Rambo non è così diverso dal Travis Bickle di Taxi Driver, altra figura che incarna alla perfezione tutto il grande rimosso del Vietnam, guerra che ha provocato una ferita così profonda nel Paese a stelle e strisce da esser riposta in una zona buia del vissuto, che è la notte del film di Scorsese, ma anche l'oscurità della foresta da cui combatte Rambo, o del monastero thailandese in cui ormai vive nel terzo, sempre e comunque ai margini di un'America che non lo vuole.

Che poi in Rambo 3, dove la missione è salvare il colonnello Trautman, prigioniero dei sovietici, ci sono i talebani e sono alleati perché, e questa è storia vera, in quegli anni combattono i russi in Afghanistan. Ecco che ancora si esplicita quanto Rambo sia un film cardine per raccontare la cinematografia statunitense (esiste, ahinoi, ancora qualche stolto che non l'ha capito...). Perché gli Stati Uniti da sempre si narrano cinematograficamente ma senza il filtro della realtà come intermediaria, piuttosto come se la storia, accadendo, si facesse direttamente cinema. Come se gli avvenimenti del reale “parlassero” in pellicola, per citare Enrico Ghezzi che in una famosa intervista a Quentin Tarantino, disse al regista americano che lui «parlava cinema più che farlo».

Tra l'altro, proprio nel luglio di un anno fa, il regista di Pulp Fiction ha fantasticato su un nuovo Rambo con Adam Driver al posto di Sly e Kurt Russell come sceriffo Teasle. Questo perché First Blood, non meno dei film della Hollywood delle origini, è un classico americano indispensabile, e lo è soprattutto perché, in ogni suo capitolo, è stato in grado di raccontare, rielaborare e problematizzare gli umori di un Paese che della Settima Arte ha fatto la sua epica.

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