Sarà che mi viene incontro sorridente per un sentiero del Monte Stella dentro il frastuono notturno di un festival dell’Unità sul finire degli anni settanta, sarà quella prossimità d’uomo che non vuole essere maestro, sarà quel guardare con limpida intenzione, ma mi ritrovo, mentre mi dispongo a evocarne la figura a quarant’anni dalla morte, nella scena del colloquio con i trapassati, che ricorre, insieme a quella dei congedi e dei ritorni, nella sua poesia. E allora eccolo Vittorio Sereni, il poeta, il tentato dalla prosa, l’uomo d’editoria.
Sarebbe comunque ardita la sintesi in cui chiuderla, eppure la sua figura è incisa nel tempo come una voce delle più attendibili fra quelle di quanti alla parola hanno consegnato il loro destino: a rileggere oggi l’opera sua, si coglie intatto il lucido scompiglio, il persistente schianto del disordine della Storia, l’urticare dell’avventura esistenziale, la disobbedienza nei confronti della parola contenta di sé. Sereni ha raccontato quel che siamo stati e quello che saremmo, e che siamo diventati.
Un ricco volume che riunisce integralmente le raccolte poetiche, da «Frontiera» (1941) a «Diario d'Algeria» (1947) a «Gli strumenti umani» (1965) a «Stella variabile» (1981), la sua scelta di traduzioni «Il musicante di Saint-Merry», i due volumi di prose, «Gli immediati dintorni» e «La traversata di Milano», infine un'ampia scelta di testi critici dedicati all'arte e alla letteratura.
Ha centellinato l’esercizio poetico, da Frontiera (1941) a Diario d’Algeria (1947), da Gli strumenti umani (1965) a Stella variabile (1981), e ogni volta è stata una svolta nella continuità. È come se il destarsi dentro il tempo, a cui allude il “diario” della guerra e della prigionia, avesse messo a fuoco non tanto (o non solo) il legame con date, dati, nomi, eventi, toponomastiche, quanto la febbre del giorno che urge, di tutta la sequenza dei giorni che urgono.
Sereni è poeta che non si lascia intimidire dall’apparente cigolio dell’accadere, è sempre sul confine, su un confine, da cui sentire la minaccia e figurare lo spazio di fuga. Frontiera è stata la sua Luino (dove nasce nel 1913), frontiera Bocca di Magra (il “posto di vacanza”), frontiera, a suo modo, è stato lo stesso lavoro editoriale che lo ha visto pensoso direttore letterario alla Mondadori dal ’58 al ’78 e poi consulente fino alla morte.
È sorprendente misurare attraverso testimonianze dirette e indirette la quantità e la qualità di interlocutori che hanno disegnato il suo multiforme universo relazionale: da Luciano Anceschi a Umberto Saba, da Franco Fortini a Dante Isella, da Elio Vittorini (che epifania la sua, “oracolare ironico gentile”, in Un posto di vacanza!) a Pier Vincenzo Mengaldo, da Giovanni Raboni a Niccolò Gallo (“muore / oggi un mio caro e con lui cortesia / una volta di più e questa forse per sempre”), dagli anni della giovinezza ai primi anni ottanta.
Tornano spesso alla memoria Sereni e Attilio Bertolucci alla libreria Garzanti di Galleria Vittorio Emanuele a Milano duettare affettuosi a partire da un verso di A Parma con A.B.: “Vorrei essere altro. Vorrei essere te”. No, sono io che vorrei essere te. E così, con impudica timidezza, sembravano non chiudere mai lo scambio identitario. Vorrei essere te. Di queste preziose accensioni è stato disseminato il passaggio sulla terra del poeta degli Strumenti umani.
Sereni ha occupato, con gravità e leggerezza, il cruciale vortice della metà del secolo – il Novecento – dall’apice delle ideologie al loro sottentrante crepuscolo. Si è riconosciuto nel crepitio della guerra, anzi delle guerre (“È il teatro di sempre, è la guerra di sempre”), ha contemplato la società intellettuale senza indulgenza ma con furiosa volontà di intendere e di tracciare – ancora una volta – frontiere non chiuse.
C’è un verso – a mio avviso monumentale – che suona “Anno il ’51. Tempo del mondo: la Corea”. Eccolo situare e situarsi. Con scabra sintesi. È grazie a questi segnavia che Sereni accerchia l’interiorità, la tentazione di andare “per farfalle e per baratri”, la resistenza al presente (“Non lo amo il mio tempo, non lo amo. / L’Italia dormirà con me”), la lealtà dell’amicizia, l’ostinazione dei “minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità”.
Nessuno più di Vittorio Sereni è stato sul filo del confine (ancora e ancora, la frontiera), tra la visione di una comunità umana possibile (quasi prefigurabile attraverso il sentimento stupefatto dell’amicizia, attraverso “i volti della mia vita”) e lo strazio della “faccia d’infortunio, di gioventù in malora”, delle “toppe di inesistenza”.
Come leggiamo in Diario d’Algeria una ideale preghiera per l’Europa affidata da Sereni al primo morto in Normandia, così ritroviamo nell’opera sua, in senso lato, quella preghiera per noi, per “coloro che verranno” (i Nachgeborenen brechtiani tradotti dall’amico Fortini), e lì ho la certezza che il liquido sguardo con cui mi viene incontro alla fine dei settanta coincide con la promessa della sua voce, del suo destino che tuttora si compie, che non smette di compiersi.
Gli altri approfondimenti
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Conosci l'autore
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente