Vai al supermercato e osserva il banco delle mele e delle pere. Quanti frutti diversi puoi contare? Forse arrivi a 10. Tra l’altro: alcuni nomi non indicano la varietà del frutto, ma il nome del consorzio che lo ha selezionato con precise caratteristiche e lo coltiva a tutto spiano, talvolta “obbligando” i contadini della stessa regione a produrre solo un tipo di frutta o verdura (si chiama monocoltura). A metà Ottocento nel Nord Italia potevi assaggiare circa 190 diverse varietà di pere e circa 80 varietà di mele. Una quarantina ancora esistono, e le altre dove sono finite? Sono estinte, perse per sempre. Sacrificate dalle logiche commerciali che hanno preferito solo i frutti esteticamente più belli e più facili da vendere.
Delle 200.000 specie di piante superiori (i vegetali più strutturati, che hanno le tre parti ben distinte: radici, fusto e foglie/fiori/frutti) solo alcune decine di migliaia sono commestibili, e poche migliaia sono state addomesticate dall’uomo, cioè sono diventate piante coltivate, offrendo gli ingredienti base della nostra cucina.
Perché solo alcune piante e non altre? La riposta sta in un concetto chiave: il vantaggio. Il contadino deve avere il vantaggio di non fare troppa fatica a coltivare quella pianta, di poter raccogliere velocemente il frutto di quella coltivazione e trasformarlo e trasportarlo agevolmente, deve dunque poter guadagnare bene dalla vendita. E chi compra dal contadino deve avere il vantaggio di un cibo gustoso, non troppo duro da masticare e facile da cucinare; deve poterlo digerire in fretta ed essere ben nutrito da quel piatto.
I contadini hanno così cominciato, già 11-10 mila anni fa, a fare delle scelte vantaggiose: tra le piante commestibili si coltivano solo quelle più facilmente addomesticabili. Inizia così una selezione artificiale (cioè non fatta in natura) e nel giro di alcune migliaia di anni in tutto il mondo si sviluppa l’agricoltura moderna che oggi conosciamo. Per molti secoli siamo andati a casaccio, per tentativi. Negli ultimi 150 anni, con l’agronomia moderna, e soprattutto negli ultimi 30-40 anni, con migliori conoscenze di biologia molecolare e genetica, abbiamo raggiunto risultati sorprendenti.
Confrontate con le specie “cugine” rimaste selvatiche, le specie addomesticate dall’uomo hanno raggiunto vantaggi importanti: le mele coltivate hanno un diametro triplo rispetto alle stesse mele selvatiche. I piselli sono 10 volte più grossi e le spighe di mais sono passate da 1 centimetro di lunghezza a 45! In altri casi sono aumentati le dimensioni del frutto (girasole, olive…), è aumentata la quantità della polpa (fragole, ciliegie, pesche, castagne, pomodori, mele, meloni, zucche...) o si è quasi azzerata la presenza dei semi (banana, uva, arancia, ananas). Siamo stati capaci di migliorare il vantaggio di alcune coltivazioni difficili riuscendo a ingrandire le parti utili di quelle piante: la bambagia che avvolge il seme di cotone, lo stelo di lino e canapa, i fiori del cavolfiore e dei broccoli, il baccello dei fagiolini. Abbiamo ingigantito le parti sotterranee di carote, rape e rapanelli, aglio e cipolla, diminuito la spinosità del carciofo. E se tutto questo avviene oggi in laboratorio con metodi più precisi anziché in un orto botanico o in un campo con procedimenti a vanvera, il risultato finale non cambia.
Gran parte dei vegetali che fanno parte della nostra alimentazione non sono più espressione spontanea della natura bensì il risultato di scelte operate dagli uomini, per il vantaggio del risultato: mangiare tutti, mangiare meglio.
Perché allora oggi siamo preoccupati della perdita di biodiversità vegetale, quando siamo stati noi a fare selezione?
Perché abbiamo industrializzato l’agricoltura trovando più comodo (dal punto di vista economico) coltivare alcune varietà di cereali, legumi, frutta e verdura in campi giganteschi (grandi anche come la provincia di Asti o la provincia di Caltanissetta) gestiti da un’unica mega-azienda agricola (questo è il latifondo). E perché tanti piccoli o medi coltivatori di una stessa regione sono stati obbligati a coltivare solo un tipo di mela o di pomodoro (questa è la monocultura). Di conseguenza decine e decine di varietà, che pure erano interessanti da coltivare, sono state abbandonate non perché abbiamo perso il vantaggio di mangiare quel frutto, ma perché le nuove regole del commercio su vasta scala hanno imposto che tra 100 diversi tipi di mele solo 20/25 sono poi quelle che fa comodo mettere in vendita al supermercato.
Perdere decine e decine di varietà di frutta e verdura è un grave danno all’ambiente per più motivi: alcuni animali non hanno più il loro cibo preferito e si danneggia la catena alimentare; insetti e uccelli trovano rifugio su alcuni alberi e non su altri; ogni tipo di monocoltura nel giro di pochi anni impoverisce il terreno (i contadini di un tempo praticavano la rotazione delle coltivazioni per permettere al suolo di rigenerarsi); coltivare solo poche specie rende ogni campo più vulnerabile: muffe, funghi, virus o altri parassiti che attaccano una pianta sono molto più distruttivi se si trovano davanti a migliaia di piante tutte gemelle, mentre un campo dove in poche centinaia di metri si coltivano 40-50 specie vegetali diverse (agricoltura mista) è automaticamente molto più protetto da ogni tipo di epidemia.
In questi giorni celebriamo la Giornata mondiale della lotta contadina, che ci ricorda l’importanza di tutelare il lavoro dei piccoli agricoltori, che con la loro presenza sul territorio contrastano la tendenza alla monocultura. Ricorda, ogni volta che accompagni mamma e papà a fare la spesa è meglio preferire il mercato rionale, cercare i banchi dei contadini della zona o addirittura sostenere il chilometro zero (agricoltura di prossimità, agricoltura familiare) entrando a far parte di un gruppo di acquisto che oggi, grazie alle piattaforme web, è davvero facilissimo da organizzare.
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