Come esistono le famiglie tradizionali, esistono anche quelle non tradizionali... ma che magari funzionano lo stesso: l'importante è che ci sia il collante dell'amore
Io mi fido di te.
Quante volte, nel corso della vita, abbiamo avuto il privilegio di dire – o di sentirci dire – queste cinque potentissime parole? Forse non molte. Eppure la fiducia è alla base di ogni rapporto umano, perché ogni volta che ci leghiamo a qualcuno e annodiamo parte della nostra storia alla sua, stiamo assumendoci il rischio di mettere parte del nostro cuore nelle mani di qualcun altro.
Ci vuole coraggio, a fidarsi. E ci vuole coraggio ad affidarsi agli altri.
Nel suo ultimo libro, Luciana Littizzetto parte dalla propria esperienza di madre affidataria per tracciare un vademecum utile a tutti quelli che decidono di intraprendere il suo stesso percorso. Pochi autori sarebbero stati in grado di trattare un tema così delicato e ricco di implicazioni emotive con una tale disarmante schiettezza, ma la comica più amata d’Italia ci riesce: il risultato è un memoir sentito, potente, mai affettato, in cui Lucianina – con tutta la sua caustica ironia – racconta come è stato crescere Jordan e Vanessa, figli suoi.
Figli “non di pancia, ma di cuore”.
Luciana Littizzetto racconta questa storia privata in un memoir potente e originale, senza risparmiarsi niente, nemmeno i momenti più duri, "quando il cuore si scartavetra, si corrode a forza di ruminare lacrime, e ti convinci che non hai capito una mazza, un tubo di niente e di niente".
Visite, colloqui, richieste, attese, rifiuti: il percorso per diventare genitori affidatari è molto tortuoso – complici anche i rallentamenti imposti da una burocrazia miope di fronte alle fatiche dei prossimi genitori – eppure in Io mi fido di te Luciana Littizzetto lo ripercorre assieme a noi, con sincerità. Perché compiere una scelta simile non è una passeggiata, e se a quarant’anni ci si ritrova madri di due ragazzini già cresciuti è facile cedere a un senso di inadeguatezza e fallimento, finendo per sentirsi “inutili come il mignolo per le arpiste”.
Il trucco per superare questi momenti di sconforto è sempre darsi tempo.
Ed è proprio la pazienza la virtù cardinale che Luciana Littizzetto sente di aver imparato dai propri figli:
I periodi difficili diventano facili, poi ritornano difficili, poi di nuovo facili. Nei momenti di felicità bisogna avere l’accortezza di dire: "Attenzione però, non ti illudere" e nei momenti di sfiga ripetersi: "Non ti preoccupare, che poi passa"
Abbiamo fondato motivo di pensare che la sedia da barbiere su cui la facciamo accomodare sia un po’ più comoda del gigantesco acquario di Che tempo che fa sul quale ama appollaiarsi ogni domenica sera: nel nostro Pelo e contropelo Luciana Littizzetto non risparmia nessuno e dice la sua su tantissimi argomenti, a cominciare dal modo migliore di riconoscere gli adolescenti bugiardi. E raccontando di quella volta che ha sorpreso il figlio a vendere i suoi autografi ai compagni di classe (“Un euro mi sembra fin troppo!”).
Ma se è vero che la fama di Luciana Littizzetto ha fatto da volano alla "vena imprenditoriale" del piccolo Jordan, in qualche circostanza ha rischiato di trasformarsi in un ostacolo: la comica è nota per il proprio linguaggio non esattamente oxfordiano, per cui si è resa conto di essere poco credibile nel vietare ai figli l’uso delle parolacce...
Ma non c'è problema, perché nella relazione con l'altro - se c'è l'amore - ogni ammissione di debolezza diventa occasione per una comprensione più profonda di sé. A un certo punto, infatti, non resta che gettare la spugna e accettarsi per ciò che si è. Che liberazione!
Se sei una madre con un linguaggio colorito, poi il colore lo devi mettere… se no non sei neanche tu!
Non solo parolacce, ovviamente, ma litigi, bugie e piccoli disastri.
“I primi tempi dell’affido hanno rappresentato un momento di grande stupore: ho scoperto quante cazzate può fare un unico essere umano”. Nel suo tagliente memoir, Luciana Littizzetto ripercorre con l’ironia che l’ha resa famosa i classici nodi che tutti i genitori, prima o poi, si trovano a dover affrontare. A partire dalla tanto famigerata richiesta: “Mamma, posso farmi un tatuaggio?”
“Mi immaginavo che Jordan andasse a farsi fare delle carpe giganti, dei mostri preistorici, dei serpenti... invece tornò a casa con dei numeri scritti sul collo. Io sono piuttosto orba e non riuscivo a capire cosa fossero, poi quando mi sono avvicinata ho letto tre date di nascita: la mia, quella di Davide (il padre affidatario NdR) e quella di Vanessa. Al che Jordan mi ha detto: ‘Non abbiamo lo stesso DNA, però adesso siete nella mia pelle’”
E forse essere una famiglia significa questo.
Trovarsi, scegliersi, lasciare un segno.
Che sia visibile come un tratto d’inchiostro o invisibile come un atto di fede.
Altri pelo e contropelo
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