Schiavo
(pop. tosc. stiavo) s. m. e agg. (f. -a) [lat. mediev. sclavus, slavus, propriam. «prigioniero di guerra slavo»] – Individuo di condizione non libera, giuridicamente considerato come proprietà privata e quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del legittimo proprietario
Ormai accade ogni sera. Mentre cammino sulla strada tra la stazione dei treni e il mio appartamento, mi capita di vedere, in punti strategici e precisi, i capannelli di rider che aspettano la loro prossima corsa. Di solito, questi luoghi di ritrovo sono vicino ai portici di qualche negozio o negli angoli delle strade dove i terrazzi sono più sporgenti – anche d’estate, anche se non piove, perché non si sa mai. Stanno lì, questi rider, col loro telefono in mano o a chiacchierare, le bici su un cavalletto (di recente si vedono quelle elettriche, con delle gomme spesse per non scivolare sull’asfalto).
In una riflessione estemporanea di una sera in cui ero particolarmente ricettivo agli stimoli esterni, vedendo questi capannelli mi è venuto in mente che nessuno conosce le città meglio di loro. Non ci vivono, magari, o non ci sono nati, ma le conoscono – le devono conoscere – come le loro tasche, perché gli ordini arrivano dappertutto, dai vicoli più stretti agli stradoni più trafficati.
In ottobre, uno di questi rider che si chiamava Sebastian Galassi e aveva 26 anni, è morto sul suo scooter mentre faceva una consegna, il suo lavoro. La storia ha girato un po’ perché pochi istanti prima il metafisico e terribile algoritmo l’aveva licenziato per un ritardo, e lui neppure lo sapeva. Quello stesso sistema che lo stava spedendo per la città alla stregua della spesa che portava nel suo zainone aveva deciso che non funzionava più, che il suo era stato un errore di troppo, e aveva mandato una mail, nient’altro, che Sebastian non aveva avuto il tempo di leggere, perché lavorava. Certo, lui, come tutti i rider, era pagato – anche bene, se vogliamo. Ma tutto qui: i turni massacranti, pericolosi, non tutelati, l’assenza di contatto umano se non tra colleghi affaticati dallo stesso lavoro, una gerarchia invisibile e implacabile. Questo vale la paga.
La schiavitù non ha più i connotati dell’antichità – e meno male, mi viene da dire. Tra l’altro, in migliaia potrebbero smentire quest’affermazione, ma fingiamo che almeno in Occidente sia vera. A oggi, la definizione di schiavitù è leggermente cambiata, e fa così: la schiavitù è «[...] lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi» e lo schiavo è un «individuo che ha tale stato o condizione».
I rider sono schiavi? Lo sono i braccianti del Sud Italia che lavorano in condizioni disumane per due euro all’ora e senza garanzie? Lo sono i giovani che prima di essere assunti prestano le loro competenze gratis a un’azienda? Non so rispondere, e mi dispiace se deluderò qualche aspettativa. Di sicuro si può dire che anche se la costrizione – il diritto di proprietà – non arriva da un singolo individuo, ma da un algoritmo, dalla disperazione o dagli stereotipi (di genere o etnici), be’, il lavoro, allora, non è libero.
Se poi guardiamo un po’ più in là del nostro naso – che, comunque, bene non sta – la schiavitù assume i contorni più netti di ciò che ci disturba di più: spose bambine, lavoro forzato per ripagare i debiti, condizione della donna drammatica e infima, bambini soldato. Questo mette sempre in tensione le nostre coscienze perché lo vediamo dall’esterno come qualcosa che non ci appartiene, e insieme alla morale emerge anche un bel senso di superiorità, perché da noi, cose del genere, non succedono più. O forse sì e non ce ne accorgiamo. O forse sì, ma in forme diverse che non sappiamo riconoscere, perché ci siamo immersi fino al collo.
Il disclaimer si fa all’inizio, ma io lo faccio qui, a mo’ di post scriptum: le cose sono molto più complesse di come ve le ho raccontate. Per questo, scorrendo in basso, trovate una bibliografia su alcune delle forme di schiavitù contemporanee analizzate nei saggi e narrate nei romanzi.
È il nostro modo di celebrare la Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù e di ricordarci che, sì, le cose sono sempre molto più complesse di come ce le raccontiamo, ma poi viene il momento di vederle per davvero.
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