Due anni fa lasciavamo il decennio sciorinando speranze. Ci aspettavamo grandi cose da questo passaggio.
Una cliente deliziosa sentenziò smagliante: «Cristiana, questo è un anno magico. 2020, tutto può succedere». E in un certo senso, aveva ragione. Anche se spero che non si sostenti facendo l’indovina.
Comunque mi ricordo il suo sorriso: deragliante, proteso oltre la bocca.
Perché allora un viso lo si leggeva per intero.
Poco dopo in effetti è successo di tutto; e non certo quella pozione di miracoli agognata da parecchi.
È iniziata una storia che non avremmo voluto ascoltare, a meno che non amassimo le distopie, figuriamoci vivere. Siamo stati tramortiti, colti alla sprovvista. Poi atterriti, poi isolati. E mentre ci isolavamo, ci atterrivamo ancora di più. Perché la paura è un virus anaerobico, senza ossigeno prolifera.
La parola pandemia ci è grandinata addosso. Al cielo non importava molto, ci sbeffeggiava col suo azzurro migliore. Difficile dimenticare quel rettangolo schietto incorniciato dal balcone.
E in una primavera di umani deserti, ci siamo avvinghiati ai soli piaceri concessi. Cucinare, sfornare focacce di lievito madre da pubblicare senza sosta come Premi Nobel. Per molti scrivere, immortalare quella cattività così assurda e così infida. Per molti di più leggere. Io, che non potevo consigliare libri dal vivo, ho cominciato a girare dei video, per sentirmi meno amputata e sempre un po’ operativa.
L’unica certezza è che tutti navigavamo a vista. Debitamente distanti, ma sulla stessa scialuppa.
E abbiamo presunto, forse perché per un breve periodo è stato realmente così, che questa tragedia subdola e sapiente ci potesse riconnettere al senso ultimo del nostro esistere. Al riconoscerci uguali nel nostro essere fragili. Ma l’auspicio si è infranto con poco. E abbiamo dimostrato a noi stessi per primi quanto sia più facile scontrarci sulle soluzioni che sentirci accomunati dal problema. Quanto le nostre piccole zolle di sopravvivenza finiscano per venire difese e non condivise, recintate con cura e sorvegliate con diffidenza.
Ecco, anche in questo caso, ringrazio ciò che faccio. Cioè leggere e vendere libri, ovvero ritrovarmi ad annegare nella sostanza che mi tiene a galla: la narrazione.
Se c’è una grande lezione che ci impartiscono i libri, semplicemente esistendo, è che ogni storia, esorbitando dal tempo e dal ritaglio di mondo che inquadra, entra al contempo a far parte di noi, delle eterne vicende del nostro sangue. Del bisogno e del desiderio di sentirsi amati e riconosciuti. Di scommettere sui limiti e averne timore. Di aggrapparsi alla bellezza per non appassire.
Sprofondare in un romanzo o in qualunque forma di racconto ci fa riemergere con nuovi paesaggi nel cuore. Innaffia la biodiversità. È questo, al di là dei nostri gusti e delle nostre private posizioni, che dovremmo tesaurizzare, lasciarci insegnare e poi trasmettere.
Proprio per questo, un po’ come regalo di inizio anno, un po’ come incoraggiamento e un po’ più forse come mania incoercibile di suggerire libri, quasi fossimo a bordo scaffale, vi propongo questi cinque esempi nobili, per tutte le età: libri che sarebbe bello scambiarsi, come una formula propiziatoria, appoggiare sul comodino perché custodiscano il nostro sonno e ravvivino il nostro risveglio.
Quindi, ancora una volta, non ci resta che leggere, perché, come credeva il fratello di Salim, «se salvi i libri, salvi la tua anima e il Paese». E davvero, non preferirei nessun altro augurio.
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