La mia storia non è lineare, e in queste pagine imbriglio le forze della poesia e della teoria per dar vita a una trama che si estenda ben oltre i confini della mia esistenza individuale
Parlare della narrazione di un popolo è sempre il pretesto per riflettere sulla natura stessa del gesto di raccontare. Non per forza sul luogo comune e abusato, per quanto vero, del punto di vista dei vincitori – e quindi un punto di vista dominante ed escludente – rispetto a quello dei vinti. Ogni racconto è necessariamente flesso, per quanto sia onesto il tentativo di oggettivazione, sullo sguardo del narratore, quindi non è questo il punto, almeno, non qui. Perché con i nativi americani si è operata non tanto una deformazione storica (anche, senz’altro), quanto una diffusa e inspiegabile indifferenza. Ciò che voglio dire è che i vincitori, questa volta, non si sono nemmeno premurati di far passare troppo per cattivi i vinti. Ci hanno provato per un po’ – vedi alla voce: epopea western – ma poi hanno mollato il colpo. Avevano vinto sul campo così tanto e in maniera così definitiva che non serviva neppure una damnatio memoriae: il tempo avrebbe fatto dimenticare i popoli che prima abitavano il Nordamerica.
Mi spiego meglio: pensate a questa formula che utilizziamo tutti, e che apre anche quest’articolo, «nativi americani». Ora, non possiamo negare che sia un'operazione che compiamo tutt’oggi con popolazioni esistenti e non quasi estinte – con gli stessi americani, di cui non diciamo in ogni circostanza: l’americano dell’Idaho o del Connecticut, o, dall’altro lato, immagino faranno così quando parlano di europei, gettandoci in buona parte in un unico calderone. Con i nativi americani, però, è accaduto che questa generalizzazione ha appiattito millenni di cultura e tradizione, centinaia di popolazioni diverse per leggi e religioni e altrettanti linguaggi e grammatiche.
[Una volta che] apriamo gli occhi di questi bambini della foresta sulla loro vera condizione, [essi si renderanno conto] che la politica del governo generale verso il pellerossa non è solo liberale, ma generosa
Diversa la questione per la conquista del West, dove si parlava di pellerossa, tipì e gente che si salutava con un gutturale «augh». Questo è ciò che per un po’ è rimasto dei nativi americani. Si sentiva parlare dei Sioux, dei Comanche, degli Apache. Più recentemente degli Inuit. Di loro si sa che sono stati massacrati, che c’erano grandi capi come Toro seduto e Geronimo che guidavano le loro battaglie con coraggio e onore, e che erano grandi cavalieri. La verità, un po’ più complessa, è che i nordamericani delle origini non erano popoli di eroi, né – tutti – di guerrieri. Erano, né più né meno, persone tranquille, con una cultura che noi oggi consideriamo esotica e affascinante, ma che altro non era che il modo di abitare quelle terre. Peraltro, terre differenti chiedevano tradizioni differenti, mentre oggi a noi piace ricordare la danza del sole o il powwow, che non sono che una parte – probabilmente importata e resa famosa in tempi recenti – della cultura nativa. E, pensate, i nativi hanno imparato dagli europei ad andare a cavallo. Erano diventati più bravi, ma solo perché avevano con loro un rapporto più intimo e diverso dallo sfruttamento. E, ancora, Toro seduto, il grande capo Sioux, oltre a chiamarsi, a dirla tutta, Bisonte seduto (chi ha visto Balla coi lupi sa cosa significa tatanka), alla fine della sua vita finì in un circo, pur di salvarsi la pelle.
Allora cos’è selvaggio? Cos’è la natura selvaggia? Cosa sono i sogni se non una natura selvaggia interna e cosa è il desiderio se non una natura selvaggia dell’anima?
Demitizzare il racconto dei nativi americani serve non tanto a restituire più verità – qualunque cosa voglia dire – alla narrazione che se n’è fatta finora. Serve, invece, a raggiungere lo scopo di ogni storia: essere verosimile, farci provare empatia, avvicinarci e non creare distacco (anche se positivo, a tutta prima, anche se eroico). Negli ultimi anni, in Italia, si sta assistendo a un fenomeno che va in questa direzione. L’editore Feltrinelli porta da tempo qui l’autrice discendente della tribù Ojibway Louise Erdrich, che non racconta dell’epica del suo popolo. Parla di uomini e donne comuni che sentono su di sé un’eredità antica e ingombrante, drammatica, in aggiunta, ma che devono arrabattarsi in questo mondo così com’è. Black Coffee, invece, ha portato Storia del mio breve corpo, il racconto autobiografico di un giovane alle prese con la propria identità sessuale e con il razzismo al di fuori della riserva in cui vive.
Questa è la nuova narrazione che serve, e di cui in Italia siamo ancora carenti. In occasione del National Heritage Month dedicato proprio ai nativi americani, tradizionalmente celebrato a novembre, la nostra bibliografia ha selezionato i testi fondamentali per capire qual è e qual è stata la narrazione finora di un tema tanto ampio quanto sfaccettato. E cerca di proporre una direzione per la letteratura a venire che renda giustizia di popoli che non sono scomparsi con il loro eroismo, non sono miti del passato: sono qui, e sono persone come tutte le altre. Con i loro problemi a pagare le bollette o a dire ai propri genitori di essere omosessuali.
Vedere oltre il paesaggio, oltre ogni forma e ombra e colore [...]. Essere liberi e compiuti, completi, spirituali
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