Strade di carta

Situazioni estreme

Illustrazione digitale di Gaetano Di Riso, 2021

Illustrazione digitale di Gaetano Di Riso, 2021

Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi

Aby Warburg

Nelle foreste siberiane

di Sylvain Tesson - Sellerio, 2012

Quando Zygmunt Bauman codificò l’espressione “modernità liquida”, tanto da imprimerlo come titolo di un’opera ormai debordata nel classico, era il 1999. Prima che molto di ciò che diamo per scontato dovesse ancora accadere. Prima che si sbriciolassero torri e forme di contatto.
Prima che un polpastrello su uno schermo ci permettesse di fare la spesa, effettuare un bonifico o manifestare entusiasmo per un video di gattini sul tapis roulant. Molto prima che cominciassimo a sentirci così fluidificati. Ormai il principale assunto di quel testo lo abbiamo implementato nelle funzioni interne. È un’appendice dei battiti. Ovvero, la nostra forma è il divenire e l’incertezza è la sola in cui credere. Proprio per questo, forse, in anni quasi incorporei in cui l’affetto o l’autostima si quantificano in clic, qualcosa, miracolosamente in noi prova a scalpitare. A rifiutare di “appiattirsi nella quarta dimensione”.
Qualcosa che ci fa preferire l’inverso al metaverso.
Esiste la carta dei libri. I loro regni di odori. Le essenze che colano dalle parole. Ed esistono libri che ci riportano, tremendamente, necessariamente, al crudo della terra. A vicende in cui l’uomo è chiamato a confrontarsi con l’istinto di sentirsi vivo. Minacciato, ma vivo. Affamato di sole e di altre ferite.
Quando penso a questo impulso, al passo che ustiona, allo stomaco in cerca di solitudini imperiali, il primo a balenarmi addosso è Sylvain Tesson. Lo si vede definito come scrittore e viaggiatore. Ma “assaggiatore d’estremo” mi è sempre sembrata più calzante. Tesson sceglie di sperimentare condizioni che sfidano pelle e paure. Il suo sangue si rinnova così, a ridosso di un buio senza intrusioni. Nelle foreste siberiane (Sellerio, 2012) ci immerge in un salto impensabile. Tra febbraio e luglio del 2010, Tesson archivia fidanzata, lavoro, mondanità tutta e si consegna al silenzio. Per auscultarlo meglio sceglie le rive del lago Bajkal, dove il primo villaggio spunta quasi dubbioso dopo 120 chilometri. Ma lui non è solo. C’è la trama stellata, l’orchestra del vento, un gelo ancestrale che tuona sul tetto. A contornarlo in quella capanna incastrata nel niente soltanto libri, vodka e sigarette. E un tempo che non si misura più come prima.
«L’inverno ha pietrificato la vita, il mondo attende il risveglio. La neve, la cascata, le nuvole e il silenzio stesso sono come sospesi. Un giorno tutto ricomincerà. Il calore scenderà dal cielo e il flusso primaverile gonfierà i tessuti della natura».
La missione è resistere, spogliarsi dal necessario apparente. Provare timore, processare ciò che sente. Osservare il paesaggio. E non solo quello che sporge oltre il suo vetro. Mettersi in ascolto di ogni seme, del tumulto che squarcia fino alla pace. E, forse, è solo al riparo dallo spettacolo del caos che tutto questo suona vicino, quasi inevitabile. Eliminare, sfidare, sovvertire, Sono questi i dettami su cui s’incardina chi sceglie l’altrove. Quello capace di atterrire tutte le nostre impettite abitudini.

Una passeggiata nella zona

di Kamys Markijan - Keller, 2019

A incarnare questa Weltanshauung (come la bollerebbero gli amanti di Kant) c’è un altro pazzo sublime. Il suo nome è Markijan Kamys, scrittore ucraino che racconta nelle vene molto più dei suoi 35 anni. In questo caso la guerra non è compresa nel prezzo. La sua ossessione, quello che lui stesso definisce “amore tossico”, si chiama Chernobyl. La meta estrema e costante descritta in Una passeggiata nelle Zona (Keller, 2019). Esattamente, proprio quell’aria inghiottita dal disastro come un boccone succoso. Un’immensa architettura di scheletri in cui prima della furia del reattore la vita pulsava come in ogni altra stanza. Villaggi paralizzati in quell’attimo di distrazione nucleare in cui Kamys non fa che tornare. Con la neve alle ginocchia, l’acqua radioattiva, ritagliandosi accessi più che proibiti. Forse letali. I suoi sono pellegrinaggi clandestini, imposti da un comando irresistibile.
«Col tempo, dopo la decima gita nella Zona, sviluppi delle abilità e degli istinti inspiegabili. Impari a distinguere i diversi rumori dei rametti che si spezzano nel bosco la notte; quelli del vento nel bosco misto. Te ne stai lì tranquillo ad ascoltare i rumori dell’aria e le porte che sbattono nei palazzoni delle città morte, ti addormenti in pace tra i cardini che cigolano, perché le case morte amano parlare ai loro ospiti».
In quel cuore sventrato e sconnesso da ogni altro organo, Kamys avverte ancora un battito. Il suo.

Credere allo spirito selvaggio

di Nastassja Martin - Bompiani, 2021

Solo a confronto con il proprio limite, col pericolo che ammicca fino a farci bruciare, solo estinguendo qualsiasi altro bene accessorio, ciò che resta siamo noi. L’essenza scarna che abita l’attimo. Il debole esistere che qualunque evento vivente può fare a brandelli. Nastassja Martin lo sa. Lo ha esperito sulla sua faccia. Credere allo spirito selvaggio (Bompiani, 2021) ce lo illustra senza sconti. Nel 2015 l’antropologa si trova in KamČatka, quando un orso la aggredisce, dimezzandole il volto. S’innesca un calvario, tra ospedali di fortuna in Russia e asettiche strutture francesi. E in questa bolla Nastassja ripensa alla belva. A quell’incoercibile essersi incrociati. Cos’è che li ha avvicinati? Scorre un legame sotterraneo tra noi e il bestiale che fingiamo di ignorare?
«Ho freddo. Cerco a tastoni il sacco a pelo, mi ci imbacucco come posso. La mia mente corre verso l’orso, torna indietro, gira, crea dei collegamenti, analizza e disseziona, costruisce castelli in aria da vero e proprio sopravvissuto. Dentro, tutto questo deve assomigliare a una proliferazione di sinapsi che inviano e ricevono informazioni più in fretta che mai, con il ritmo incalzante, folgorante, autonomo e ingovernabile del sogno. Eppure niente è mai stato più reale e più presente».
La sua stessa identità è rimescolata da quell’incontro. Non solo quando si guarderà allo specchio. Quelle cicatrici sono il solco da oltrepassare, tutto lo spazio di libertà selvatica che abbiamo sepolto credendoci gli unici, i padroni incontrastati di un cosmo che, mentre trema, ride di noi

Nel bianco

di Simona Vinci - Neri Pozza, 2020

Gli emisferi finora conosciuti sembrano perdere pezzi, sciogliendo le garanzie perenni di ghiaccio e termometro. Quanta colpa umana grandina su tutto questo? Simona Vinci affronta questa ed altre domande scrivendo Nel bianco (Neri Pozza, 2020). E ogni sentenza sembra incisa in quella neve così precaria, così preziosa. Il pianeta (ancora per poco) ha una testa polare che si chiama Artico e la scrittrice si dirige lì, dove nulla è prevedibile, dove il nostro impeto di incasellare ogni cosa è destinato a sbriciolarsi di continuo. La Natura legifera, decide per noi e attraversarla significa distanziarsi da sé, accettando di non corrispondere più a ciò che si era alla partenza. Ma non è forse questo il più intimo senso di ogni viaggio?

«È una solitudine impersonale. Guardo quelle montagne e penso che la solitudine assoluta è la verità estrema dell’esistenza. Non c’è altro».

Abbiamo bisogno di una destinazione sconosciuta, in cui nulla ci somigli, almeno all’inizio. Perché poi tutto diventa un riflesso del nostro muoverci e mutare. Avere davanti a noi una vastità nuova, incalcolata, selvatica, ci porta a impugnare altri mezzi per determinare le nostre dimensioni. Fin dove possiamo arrivare? Quanto è largo il nostro respiro, fin quanto si allungano il braccio e lo sguardo per accogliere ciò che (ancora) non ci appartiene?

Orme

di Robyn Davidson - Feltrinelli, 2014

Orme (Feltrinelli, 1993) di Robyn Davidson è un biglietto aperto verso l’ignoto. Nel 1977, senza ingordigia di selfie a spezzettare ogni momento, l’autrice percorre a piedi il deserto australiano. Millesettecento miglia di sabbia in compagnia di quattro cammelli e del suo cane. E ciascun granello ridisegna il suo sentire. «Mille anni si comprimevano in un giorno e ogni mio passo durava secoli. Le querce del deserto sospiravano e si chinavano su di me». Ma la lezione scava sempre più in fondo.

«Avevo capito la libertà e la sicurezza. Il bisogno di distruggere le convenzioni. Essere liberi significa imparare, mettersi continuamente alla prova, scommettere. E non è un gioco sicuro. Avevo imparato a usare le mie paure come scalini per procedere avanti e non come ostacoli».

Questi sono i risultati del rischio. Palpeggiarne gli spigoli e scegliere la strada non battuta. Le esperienze estreme, quelle che in prima istanza sembrano sbalzarci così tanto fuori di noi, sono invece capaci di ricondurci al nucleo. Che non dobbiamo soffocare finché abbiamo aria.

I libri consentanei di Cristiana Saporito

Nelle foreste siberiane. Febbraio-luglio 2010

Di Sylvain Tesson | Sellerio Editore Palermo, 2012

Credere allo spirito selvaggio

Di Nastassja Martin | Bompiani, 2021

Nel bianco

Di Simona Vinci | Neri Pozza, 2020

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