Simone, Firenze | 08.06.23
Ciao Maremosso!
Spesso penso a quanto il sistema educativo e formativo scolastico mi abbia dato, e a quanto, per certi versi, sia stato deleterio. Chiaramente la mia visione è influenzata dal contesto in cui son cresciuto e dalla mia personalità, pertanto non ha senso generalizzare, seppur io colga tantissime similitudini con i miei coetanei. Ridurre la “missione della scuola” all’assegnazione di un numero svuota l’esperienza scolastica di tutta la sua bellezza. È semplicissimo che un bambino cada nell’equivoco che il rendimento è la cosa che più conta, e che ciò lo definisce e lo classifica come persona nel contesto classe e all’esterno. Il mio non è un invito alla mediocrità, è un pensare che ci sono altre strade percorribili, che questa cultura della performance possa essere arginata per favorire un sistema educativo sano. Sul sito del ministero si legge: “[…] La scuola affianca al compito “dell'insegnare ad apprendere” quello “dell'insegnare a essere”. L'obiettivo è quello di valorizzare l'unicità e la singolarità dell'identità culturale di ogni studente […]”.
Elisa, Ferrara | 01.06.23
Buongiorno Maremosso!
"Pensa al futuro": cresciamo più o meno tutti con queste parole, con l'invito a sfruttare il nostro tempo solo per costruire un futuro stabile al costo di perdere di vista la sostanza del nostro presente. Il tempo libero è diventato tempo perso, il bisogno di riposo una debolezza. Per dimostrare di essere in gamba bisogna essere pieni di impegni e privi di tempo. Siamo bombardati da titoli di giornale che osannano i traguardi accademici e sembrano sussurrarci tra le righe che stiamo perdendo la gara, stiamo fallendo. Ma non si può competere una gara equa se non si parte dallo stesso via. L'università è una macchina che non tiene conto degli imprevisti, ignora bisogni e circostanze individuali, ignora i diversi punti di partenza di ognuno di noi. È un sistema che toglie valore a ciò che siamo al di là dei numeri collezionati in un libretto. In una società che ci ha convinti di poter essere definiti solo dai nostri successi, bisogna avere il coraggio di credere che noi non siamo solo ciò che diventeremo da grandi. Non siamo solo un titolo in più da aggiungere al curriculum. Non siamo il posto che occupiamo o occuperemo nel sistema lavorativo. Consiglio l'ascolto di Vienna, brano in cui Billy Joel nell'album The Stranger invita a rallentare e a restituire valore al presente.
Giulia, Milano | 30.05.2023
Viviamo in una società che sempre di più tende a etichettare e classificare. Esistono dei preconcetti che legano la figura a un certo status socio-economico associato all’età. Riprendendo il tema del mese scorso sull’apparenza estetica, è evidente come sia difficile potersi svincolare dal giudizio. La soluzione? Cercare di condurre una vita in base ai propri ritmi e possibilità (gioca tanto anche la fortuna in questi casi), evitare di farsi influenzare ed essere felici di quello che si può ottenere con i propri mezzi.
Giada, Pavia | 30.05.2023
Fin da quando siamo piccoli, in qualsiasi cosa facciamo, esiste quel momento in cui ci chiediamo cosa gli altri si aspettano da noi. Questo non porta ad altro che offuscare la nostra visione delle cose perché se poi quella esatta cosa non succede, allora sarà una sconfitta. E sconfitta = fallimento. Siamo aggirati da un sistema che ci vuole perfetti in tutto e per tutto. Se il sistema non può farci nulla, proviamo a cambiare noi la prospettiva delle cose. Io immagino il fallimento come un'altalena a due bracci: su un braccio il successo, sull'altro il fallimento. Il primo a dare la spinta è seduto sul braccio del fallimento e non deve fare altro che spingere. Chi è su, invece, è letteralmente normale che ad un certo punto "cada", per poi trovare la forza nelle gambe per spingersi su e così via. Un trampolino. Niente di più. Il problema è che oggi è il tempo in cui si corre veloce, si deve stare al passo, non ci si può girare un attimo a guardarsi dietro. Ma perché? Ma dove stiamo andando tanto da avere tutta questa fretta? Se cadi, inciampi, e perdi anche solo un secondo di tempo, peggio per te. Ma non è forse il caso di dare spazio alla lentezza? Anche solo per fermarsi e guardarsi attorno, non per guardare gli altri, ma per godere di quello che abbiamo, di dove siamo, dove viviamo ed apprezzare la fortuna di esserci o anche solo per aprire gli occhi su noi stessi. E se dovessimo arrivare poco dopo solo perché ci saremo fermati un attimo a respirare? Assolutamente nessun problema, non valiamo di meno. Il ciclo continua, bisognerà solo trovare la forza di spingere con le gambe per ritrovarsi nella parte alta dell'altalena.
Ciao maremosso!
Maria, Pavia | 30.05.2023
Quanto la performatività incide sulle nostre vite? Tanto, troppo. In una società così veloce non c'è tempo per l'errore: bisogna far tutto in modo eccellente, a costo di sacrificare noi stessi. Anche io sono stata (e a volte sono tuttora) vittima di questa narrazione, perché siamo talmente tanto bombardati da questi modelli di "perfezione" che la normalità, con i suoi alti e bassi, ci sembra anormale. Anni fa una persona mi disse che non serve a nulla essere eccellenti in una cosa, se poi si è carenti in tutte le altre. Credo sia un'affermazione che possa sembrare banale, ma io ci ho riflettuto per tanto tempo e ad oggi credo sia una delle verità più importanti. A cosa serve essere eccellenti nello studio (porto questo esempio essendo una studentessa), se per avere il massimo dei voti non curo i rapporti personali, non sono un'amica presente, non riesco a stare accanto alle persone che amo? Davvero un voto alto vale più di tutto questo?
Vi ringrazio per questo spazio e per l'attenzione.
Pietro, Como | 24.05.2023
La nostra società pone il lavoro al centro dell'attività di realizzazione personale e di progresso della collettività, come, tra l'altro, ci ricorda la nostra Costituzione.
Credo che il lavoro offra un senso di scopo e di significato in quello che faccio, oltre che un'occasione di mettere in pratica competenze e passioni. Per questo motivo, non penso che identificarsi nel proprio lavoro sia necessariamente sbagliato. Quando invece è utilizzato come modo per definire lo status sociale e il valore come individuo, ecco che nascono le storture. Se lavori in un'azienda che premia la produttività ad ogni costo, dove le persone sono stimolate a lavorare più duramente e per più ore, finisci per conformarti ai canoni, a sentirti in dovere di essere spremuto e sentirti a tua volta in diritto di spremere chi arriva dopo di te perché "ci sono passato anche io, ora tocca a lui/lei". Si cade nel solito meccanismo che fagocita l'ultimo arrivato, quello meno bravo o quello che stacca alle 18, magari perché deve andare a prendere un treno, ma poco importa, perché tutto è sacrificabile all'altare della performatività. Forse basterebbe riconoscerci come elementi più complessi di un impiego lavorativo o di un report da consegnare entro fine mese.
Bisognerebbe dedicare anche del tempo a sviluppare altri interessi, esplorare sfaccettature della nostra personalità e poi tornare nello stesso ambiente di lavoro e arricchirlo di idee e stimoli.
Suggerisco il libro di Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, in cui ho trovato diversi spunti interessanti, tra cui, l'ossessione per la crescita economica.
Chiara, Milano | 21.05.2023
Fin dall’infanzia, per ogni età e per ogni tappa, siamo costantemente bombardati da ciò che gli altri si aspettano da noi e di conseguenza da ciò che noi stessi cominciamo a pretendere, considerando un fallimento ogni sconfitta o imprevisto che intralci il nostro cammino. Ormai, tutto sembra essere diventato una gara, una gara dove non conta partecipare ma solamente vincere. Forse, inconsapevoli che ciò che perdiamo vale molto di più.
Lucia, Grottaglie (TA) | 17.05.2023
Buonasera, la cultura della performance ci obbliga a non respirare... ha fatto perdere anche ai bambini il diritto all'ozio, un irrinunciabile diritto che se esercitato permette prima ai piccoli e poi ai grandi di ascoltarsi, fermarsi a riflettere su cosa ci circonda, scoprire la bellezza di un paesaggio e di un tramonto. Io l'ho fatto tanto da piccola...lo faccio ancora come bisogno primario di uscire da un lavoro caotico, impegnativo ed emotivamente stravolgente ma serve ai piccoli, riempiti di cose da fare, di gare da vincere e sempre di corsa per primeggiare su tutti, ma perché??? Educarli alla noia... ad uno spazio senza impegno per dar voce a quel Sé soffocato, represso, ubriacato da milioni di stimoli visivi e sonori. Occorre dar spazio alla lentezza come risorsa e valorizzare anche chi non arriva primo...non raggiunge il massimo dei voti... o follower, perché noi non siamo numeri ma persone, ognuna con i propri meravigliosi tempi e non valiamo di meno se arriviamo per ultimi...ciò che conta è arrivare!!!
Mauro/Eclipse, Verona | 15.05.2023
Noi boomer, che abbiamo alle spalle qualche decennio di vita professionale, abbiamo imparato a diffidare di chiunque pretenda di valutare il proprio lavoro (ed il nostro) sulla base di freddi (gelidi!) dati numerici: rapporto tra fatturato ed ore lavorate, tra reddito prodotto e numero di clienti, tra vendite andate a buon fine e consulenze prestate. Il perché è presto detto: ci sono elementi che sfuggono ai report, ai grafici a torta, alle matrici. Il rapporto umano che lega le persone, la cortesia, la disponibilità a prestare un servizio, la capacità di risolvere un problema... non potranno mai essere tradotti in numeri. Certo, un idraulico dovrà aggiustare un rubinetto che perde ed un conducente di autobus dovrà rispettare la tabella di marcia senza fare incidenti. Ma come valutare il lavoro di un insegnante? Tramite il numero degli studenti promossi? Come valutare un geologo? Nel film L'attimo fuggente, Robin Williams deride - giustamente - chi valuta una poesia con criteri teorici. Quello della performance (occhio: l'accento va sulla lettera 'o') va a braccetto con il mito del successo basato sul denaro e sul lusso (esibito) che ne deriva. Vi svelo un segreto: il lavoro serve a garantirsi un livello decente di vita (una casa sulla testa e tre pasti al giorno) ma - soprattutto - a garantirci del tempo libero da dedicare ai nostri interessi ed agli affetti. Tutto il resto è fuffa. Libro consigliato: Scott Adams, Il piacere del lavoro secondo Dilbert... la pernacchia definitiva alle riunioni aziendali, alle slides, ai database, al posto auto riservato. Olè.
Ciao maremosso!
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Viviamo in un sistema malato che baratta la persona per la performance
Quanti di noi si sentono quotidianamente schiacciati dalla sensazione di non essere abbastanza?
Siamo costantemente bombardati da notizie che esaltano l'eccellenza ottenuta in breve tempo e con il sacrificio di sonno, svago e momenti dedicati a sé stessi. Ostentazione dei risultati, tempistiche abbreviate, modelli di perfezione lavorativa e accademica, sembrano essere l'unico esempio da seguire per sentirsi realizzati.
Se Alessandra De Fazio ha voluto sollevare questo problema davanti al Presidente della Repubblica annoverandolo al primo posto tra le urgenze, non stupiscono i casi sempre più frequenti di abbandono scolastico a causa di forte ansia, né la salita del trend social quiet quitting nel quale le persone si licenziano da lavori opprimenti in diretta su TikTok, e nemmeno i casi di universitari che - pur di non rivelare il vero andamento del loro percorso di studi - decidono di mettere fine alla loro vita.
In un'epoca in cui sembra possibile identificarsi esclusivamente attraverso il proprio titolo di studio e/o la propria posizione lavorativa, quanto realmente quello che pensiamo di desiderare corrisponde alla prestazione performativa che quotidianamente mettiamo in atto?
vuole leggere le vostre penne!
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