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Come se non fossimo stati di Giulia Ciarapica: la libertà di essere donne

Si chiese molte volte a cosa servisse il dolore, e la risposta non le arrivò mai chiara come avrebbe voluto.

Inizia così una storia breve e molto importante, forse quella che oggi, posso dirlo con certezza, si avvicina di più al mio sentimento narrativo, non solo come autrice ma soprattutto come donna e figlia: Come se non fossimo stati, un graphic novel scritto da me, sceneggiato da Luca Scornaienchi e illustrato da Michela Di Cecio per Round Robin Edizioni.

Prendo a pretesto quest’ultima uscita – che non è altro che una leggenda dark, ambientata nella Casette d’Ete del 1929 – per affrontare un tema di natura sociale e antropologica, che inizia a cambiare, nella percezione comune e anche grazie allo sforzo letterario di molte autrici, nella seconda metà del Novecento: il rapporto col materno, anzi, il rapporto con un corpo che a un certo punto condividiamo con un altro, da dentro, diventando uniche tutrici di un essere a noi sconosciuto, e quindi, di conseguenza, il ruolo che i figli assumono all’interno delle nostre vite.

Figli, come è scritto nel graphic novel, non sempre desiderati. Figli che mangiano esistenze, che distruggono sogni, figli che capovolgono gli esseri umani che li mettono al mondo, figli che chiedono, chiedono, chiedono senza sosta. Sono stata e sono tuttora una figlia che chiede. Sono stata e sono tuttora una figlia che, sua madre, l’ha inghiottita pezzo dopo pezzo, negli anni, senza rendersene conto. Sono una figlia che fa la figlia, che pretende amore e tutto ciò che non ho chiesto ma che per diritto mi hanno detto dovessi ricevere. A quale titolo? Beh, sono la figlia, non basta? Non ho qualità, non ho meriti, se non quello di essere una persona a cui qualcun altro ha deciso di dare la vita – che cosa preziosa e terribile, questa famosa Vita, da metter paura a chiunque.

Eppure lo so che, almeno nel mio caso, mia madre s’è fatta mangiare viva con gioia, che tuttora si fa sgranocchiare quando ne ho bisogno perché lei lo voleva, quest’amore immenso e sconfinato e reciproco – lo sperava quantomeno, e così è stato, bontà sua e mia, ma se non fosse accaduto? Se fosse stata l’unica a dover trascinare quell’idea di amore che nessuno a parole riesce mai a spiegare?

Ma perché, dicevamo, nella cultura e nella letteratura del Novecento la relazione madre-figlia (come spiega Saveria Chemotti fornendo esempi illustri nel suo saggio L’inchiostro bianco, Il Poligrafo edizioni) è stata spesso descritta come luogo di conflitti e sofferenze? Cos’è cambiato negli anni Settanta, tanto da farci ricredere sul fantomatico ruolo sacrificale della Madre?

Lo dice anche Antonella Lattanzi nel suo romanzo Cose che non si raccontano (Einaudi, di recente selezionato nella dozzina del Premio Strega 2024), mentre narra al lettore una vicenda autobiografica di inimmaginabile dolore:

questa figura di madre dolorosa che si immola per i figli e scompare come essere umano non la posso sopportare.

A suo modo lo racconta anche Donatella Di Pietrantonio ne L’età fragile (Einaudi, selezionato nella dozzina del Premio Strega 2024), tanto più che quello col materno è uno dei temi portanti della scrittrice abruzzese:

è stato doloroso crescere Amanda. Io non la capivo, non capivo cosa volesse da me. Avevo paura di restare sola con lei.

Paura, sacrificio, annullamento del sé (totale o parziale). Essere madre vuol dire trasformarsi in qualcosa di enorme, perché gigante è lo sforzo di chi deve capire, educare, insegnare. Cosa? Tutto. E se è vero che la maternità, originariamente e simbolicamente, è stato l’unico ordine possibile in cui doveva e poteva esistere una donna (pena, la sua mancata identificazione come tale, perché mettere in discussione il materno significava mettersi in discussione come donne), se è vero che intere generazioni di donne sono cresciute all’ombra dell’archetipo della madre, di questo fascino ingombrante, di questa potenza senza volto ma con una consistenza micidiale, è altrettanto vero che liberarsi dalla maternità come ruolo ha significato aprire un conflitto con la maternità stessa.

Madre amorosa e madre terrificante, così Jung sosteneva che l’archetipo della madre si manifestasse, ed è ovvio che per la figlia non esiste una reale possibilità di difesa: o ci si identifica o si lotta.

 

Cura, dedizione e accudimento: il topos è sempre lo stesso, ma quest’amore così generoso e disinteressato è davvero il fine ultimo per la vita di una donna? La risposta è no. Non per tutte, non per chi non se la sente, non per chi ha paura, non per chi, semplicemente, ha altri progetti. La donna non è un sacrificio. La donna è un essere ambizioso ed egoista, talvolta malato di lavoro, ricca non di sogni ma di obiettivi da portare a termine. La donna è concretezza, empatia e possibilità di scelta. Proprio come tutti.

Abbiamo perso il senso civile e antropologico dell’essere umano donna, l’abbiamo fatto scivolare, nella notte dei tempi, in quell’anfratto buio e costipato che è il regno casalingo, l’abbiamo illusa e accontentata – un posto in cui tutto ti è possibile, cara femmina di poche pretese, esiste ed è la casa, pensa, proprio la tua, di casa, sii felice e cucina – e poi l’abbiamo esclusa, emarginata, sfrattata non solo dalle dinamiche di potere ma anche da quelle decisionali. Per sé, prima ancora che per le vite degli altri.

E se l’autobiografia classica maschile presuppone, come scrive ancora Chemotti, un Sé reale, quella femminile:

non presenta al centro una identità compatta e coerente, ma una identità frantumata, multipla ed eccentrica che trova» almeno nella narrazione, nella scrittura «e nel testo l’occasione di ri-costruirsi e di riconoscere il senso irrinunciabile della propria esistenza.

Dunque, alla fine, l’unico vero strumento di (auto) difesa resta la parola, scritta e orale (quella che esprimiamo non solo nelle piazze e nei luoghi predisposti, ma anche sui social), una parola che dona chiarezza e riporta (o dovrebbe riportare) sul piano della lucidità. Tuttavia, spesso non basta, perché il cosiddetto popolino, quello dei posti piccoli così come dei posti grandi, quello dei luoghi fisici così come quello virtuale, mantiene sempre la predisposizione alla diceria congiunta, alla calunnia facile specie quando al centro ci sono le donne. Ne scrivo proprio in Come se non fossimo stati: Leila, la protagonista, viene descritta come un’assassina, perché si dice – senza che alcuno porti una sola prova a sostegno – che abbia ucciso suo figlio appena nato. E il dubbio resta fino alla fine, poiché Antonio, che con lei imbastisce una relazione amorosa breve ma intensa, a un certo punto la sente dire: “Non voglio bambini. I bambini portano solo guai”.

Lascio ai lettori il gusto di arrivare alla fine e scoprire chi sia davvero Leila e cosa ne abbia fatto di quel fantomatico figlio, ma: questa storia, ricca di una simbologia che nella legenda finale viene spiegata nel dettaglio, vuole anzitutto testimoniare che una donna è una donna, e nient’altro che questo. Un essere terreno e divino, magico e doloroso, ambizioso e crudele, che sceglie cosa essere e cosa non essere. Che sa cosa vuole e cosa non vuole. Che sa di poter diventare una madre ma che deve essere libera di deciderlo, a prescindere da ciò che la società consiglia e impone.

Il fine ultimo della vita di chiunque non è mai la regola, è la libertà. E questo, alle donne, dovete concederlo una volta per tutte.

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