La redazione segnala

A spasso per Termoli, tra ristoranti e letteratura

Una delle tappe previste di questa estate doveva essere Termoli ma il concerto è stato improvvisamente rimandato a causa di una di quelle cose che succedono e basta e non ci si può fare nulla. Visto il preavviso brevissimo che ci era stato dato – eravamo già in zona per altri impegni – la direzione artistica del festival ci ha garantito ospitalità per la notte. Ritrovandoci inaspettatamente in libera uscita, con Lara, la mia manager, siamo andate a farci una passeggiata nella – bella – Termoli, che non conoscevo, alla ricerca di un posto carino dove cenare e decomprimere la fatica della giornata. I ristoranti che ci avevano segnalato erano tutti pieni – sabato sera, sette di agosto, mare adriatico, che cosa vuoi trovare senza prenotazione – dunque siamo andate a caso sbirciando anche un po' online, buttando un occhio sulle recensioni.

Dopo buoni venti minuti di vana ricerca, in una strada interna si palesa un ristorante ad angolo con un nome sudamericano. Dalle ampie vetrate che davano sulla strada si intravedeva un ambiente semplice, un po' naif, con molti tavoli ancora liberi. D’istinto mi ha attratta subito ma l’assenza del pienone un qualche dubbio me lo metteva, dunque sono andata a leggermi le recensioni. E lì ho iniziato a essere ancora più curiosa: la maggior parte dava o cinque stelle o una sola, insulti si alternavano a entusiasmo, le risposte del proprietario del ristorante erano strambe, a volte epiche, sempre a tono, scritte in italiano incerto. Non esisteva nessuna via di mezzo – riporto fedelmente – si passava da «Mamma mia che eleganza il titolare. Davvero da bon ton di alta hotelleria. Cafone, rozzo, e anche scocciato, peccato perché il cibo merita» a «Bellissimo posto molto accogliente, mangiare ottimo. Consiglio pienamente». Le cose qui erano due: o si alternavano due staff diversi oppure lì dentro c’era una storia o comunque, della personalità.

All’interno non c’era nessuna musica di sottofondo – il che mi aveva già convinto della scelta – anzi, la cassa dello stereo era stata direttamente voltata verso la parete, sulla mensola appoggiato stava un cappello verde e giallo che avrebbe potuto essere indossato da un cowboy o da Indiana Jones a un rave. Il microscopico bagno con sull’unica porta la scritta spiccia “uomo-donna” era pulito e agghindato da orchidee finte e altre piantine plastificate, mollate lì negli interstizi, un appendiabiti dorato stava disabitato in un angolo, poi altra paccottiglia brilluccicosa a forma di conchiglia, stelle marine appiccicate con lo scotch e una tendina acrilica color corallo tutta scema, senza tema di smentita. Il contrasto evidente era tra questo tocco femminile un po' trash ma coerente e poi tutto un maschile asciutto, duro, tavoli semplici, piccoli, solidi, quadri di nodi marinai appesi asimmetrici per metà accanto a una lampada e per metà sopra la porta. Ho pensato che questo femminile magari non fosse più presente.

Ci ha accolte un cameriere alto, di mezza età, brasiliano, che chiameremo A. Poi a prendere la comanda però è venuto lui, il titolare, una sorta di Lucio Dalla ristoratore, su indefiniti cinquantacinque-sessanta, pantaloni quasi capri, maglietta a righe marinara che gli stava pure un po' stretta e un po' corta mettendo in risalto un ventre prominente, una pancia decisa e senza sbavature, ciabatte, pochi capelli corti, ancora castani, spettinati, labbra corrucciate, sguardo irritato, zero sorriso. Non ha cambiato espressione per tutta la serata. Una figura già iconica di suo, di strepitosa involontaria comicità. Sono stata tutta la sera a domandarmi in quale film potesse stare dentro. Alla fine ho deciso che la pellicola di cui poteva essere certo protagonista avrebbe avuto come regista o Kusturica o Andrea Segre.

Il fastidio della maggior parte degli altri avventori era palpabile perché non c’era formalità in nessun gesto, nessuna compiacenza, nessun accomodamento, nessun ritmo di lavoro performante, mentre a me per gli stessi motivi veniva al contrario da dispensare sorrisi spontanei a tutto e in più il cibo era ottimo perché era ottima la materia prima, nessun ghirigoro in più, neanche nei piatti. Qualcosa di quello che avevamo ordinato non era più disponibile ma abbiamo scelto altro.

A fine cena non ho resistito e ho parlato con lui, che ha risposto a monosillabi. Si chiamava G., sua moglie era brasiliana ed era a casa, al nono mese di gravidanza (ecco dov’era, lei, ed ecco chi rispondeva a tono alle aspre critiche dei re-censori). Per entrambi sarebbe stato il primo figlio. G., termolese, ha passato molti anni nel paese carioca e poi è tornato. Alla domanda «Perché ha scelto di fare questo lavoro?» la risposta stellare è stata «Perché mi piace il contatto con le persone».

Ora io non so e non posso sapere se fosse una risposta di comodo ma non mi è parsa, e di nuovo era comica e melanconica a contrasto con tutto il resto, e mi ha così conquistato, G., per poi portarmi un nocino fatto da lui. Ho parlato anche con il cuoco, P. Ha iniziato a lavorare a nove anni, sempre in cucina, «...ma faccio solo piatti semplici, non so fare altro», è emigrato in Germania, ha sposato una paesana, hanno avuto tre figli, poi anche lui è tornato, «Volevo andare in pensione ma G. aveva bisogno di un cuoco e non ce lo sapevo dire di no a lui, siamo tanto uniti, adesso però voglio smettere, sono stanco, ma ancora non ce l’ho detto, che poi si dispiace. Manco lo so quanto prendo al mese ma non mi interessa, perché mi fido, G. è così». Una vita di fatica, P., e un corpo che la raccontava tutta, la sua vita. Siamo restate a lungo, bevuto bene, pagato il giusto, G. mi ha pure messo dentro una bottiglia di vuota di birra Peroni un po' del suo strepitoso nocino. Un sorriso alla fine gliel’ho strappato.

Non posso sapere se fosse un filibustiere o meno, G., e neanche ho voglia di saperlo, del resto era facile immaginare che a clienti poco predisposti a entrare nel suo mondo riservasse una bella dose di rudezza col desiderio esplicito di irritarli e farli sparire, di quella gente lì non ne aveva bisogno, mi verrebbe da dire. Quello che so però è che nel tornare in albergo e nelle settimane successive mi è restata una domanda: quanto siamo disposti a tollerare l'autenticità – nostra e altrui – in un tempo in cui rincorrere nuovi feticci e status universali è diventato il nostro pane quotidiano? Perché quella che ad altri è sembrata maleducazione a me è parso un piccolo mondo da scoprire? Possiamo continuare ad essere curiosi ascoltatori e osservatori di persone e luoghi realmente non omologati? In quanti alziamo la mano se ci si chiede chi tra noi prova irritazione o paura di fronte a uno specchio che ci rimanda un mancato coraggio di libertà, una mancata ricerca di sé?

In quei giorni stavo riascoltando da qualche settimana Pino Daniele, il suo disco capolavoro Nero a metà; stavo poi leggendo contemporaneamente – temeraria eh – Cavalli selvaggi di McCarthy e La bella confusione di Francesco Piccolo.

I primi versi di Voglio di più di Pino dicono «Io che ho visto la terra bruciare / e la gente che mi entrava in casa / io che ho visto tutto oggi sono vero»; il personaggio di John Grady in Cavalli selvaggi è silenzioso, centrato su di sé, essenziale, in giovanissimo sotterraneo subbuglio, va e viene tra Stati Uniti e Messico a cavallo, più volte, bivacca, lavora duro, si innamora, parla poco, osserva e sentenzia, e poi incontra e gestisce la violenza, conosce la separazione, arriva all’età adulta, cerca e si trova, resta se stesso diventando altro; Francesco Piccolo racconta la lavorazione parallela de Il Gattopardo e Otto e mezzo tracciando lo storico e l’analitico di quel periodo irripetibile e del rapporto che Visconti e Fellini avevano sia con il film che stavano girando sia tra di loro. Entrambi i registi sono ossessionati e a volte terrorizzati da quello che la loro opera in fieri rimanda di loro stessi, riescono a trovare una quadra solo quando accettano di guardarsi, di accettare anche la stortura.

E allora mi è venuto da rispondermi che, al netto del divieto di violenza e di lesioni della libertà altrui, o ci si attraversa e ci si lascia attraversare accettando tutte le sfumature di sentimenti non addomesticabili oppure impararsi, vivere a pieno e non giudicarsi diventa un miraggio. G. non si giudicava più, P. non lo so ma certamente entrambi non avevano né tempo né interesse per l’apparenza. Molti dei clienti di G. forse non si sentivano all’altezza della loro stessa aspettativa protocollare, G. si sentiva comunque all’altezza di tutti, nei piatti di P. stava una sapienza senza altisonanza.

Verso le ultime pagine di Cavalli selvaggi McCarthy scrive «Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore».

Facendoci un gran sorriso a riguardo direi che la mia cena a Termoli è stato uno di quei fiori.

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