Nonostante se ne discuta da decenni, uno degli argomenti più affrontati dell’ultimo periodo riguarda la necessità, “tutta femminile”, di trasformare “i fatti propri” in letteratura – o comunque in narrativa, tanto per non scomodare termini ingombranti. E non che ci sia qualcosa di sbagliato nel chiedersi fin dove è giusto spingersi, fin dove è necessario raccontare il proprio dolore (e forse anche quello degli altri), ma torniamo alla solita questione: lo fanno le donne perché con buona probabilità hanno poco altro da raccontare che non sia l’universo intimo e famigliare delle piccole cose. Scrittrici “casalinghe”, forse? O comunque “della memoria”.
La riflessione prende l’abbrivio da romanzi come Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi (Einaudi) e Come d’aria di Ada d’Adamo (Elliot), due perfetti esempi di narrazione del piccolo – in quanto singolo, individuale – dolore che in realtà diventa subito gigante, si allarga sulla pagina trasformandosi in dolore collettivo, esperienza di tutti.
Anzitutto, ancora oggi permane l’abitudine di classificare il dolore (piccolo, grande, falso, autentico, artificioso) e quando ci giriamo intorno lo definiamo “pornografico”, o meglio, discutiamo di “pornografia del dolore” praticamente per qualsiasi cosa, senza distinguere fra l’indugiare attorno a un tema in modo vorticoso e il racconto di qualcosa che potrebbe aiutare altri nella medesima condizione. Non che la letteratura salvi, per la salvezza vera e propria occorre altro, ma in certi frangenti aiuta a sentirsi meno soli.
Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. Antonella e Andrea vogliono un figlio: adesso lo vogliono proprio, lo vogliono assolutamente. Ma è come se non ci fosse niente di semplice, nel desiderio più naturale del mondo: tutto ciò che può andare storto andrà storto, anche l’inimmaginabile.
Per esempio, Lattanzi compie un gesto che definire coraggioso è poco, e lo fa con una schiettezza rara, una sincerità che arriva fino all’osso della disperazione: «Sii sincera quando scrivi», dice a sé stessa mentre la narrazione procede, perché la sincerità ripaga qualsiasi sofferenza, anche quella di cui si fa carico l’autrice che per anni non ha voluto figli – perché prima vuoi viaggiare, lavorare, vivere un’esistenza che sia tua, solo tua – ma che poi, nel momento in cui sentiva di aver varcato la soglia del momento giusto, con un compagno a fianco e una relazione solida, scopre che il suo corpo non è più pronto. E inizia qui il dolore, il viaggio brutale dell’ossessione e della medicalizzazione. Ostinata, caparbia, indefessa, mai rassegnata. Così Lattanzi si propone a noi, in tutta la sua inconsolabile fragilità ma anche nella sua durezza – verso sé stessa, in primo luogo: «Hai rifiutato due vite. E allora sei stata punita».
Quel che interessa, però, è il fatto che più d’una volta ripeta:
E se stai parlando solo di te?, mi chiedo. Un libro per essere un libro non può parlare solo a te. Deve essere di tutti. Come faccio a sapere se sto parlando solo a me? Un libro è una cosa seria. Non puoi scriverlo per sfogarti. Non puoi scriverlo perché serve a te
Non è una giustificazione ma all’interno del dibattito odierno suona come tale.
Forse se l’è chiesto anche Ada d’Adamo mentre scriveva il suo Come d’aria (vincitore Premio Strega e Strega Giovani 2023)? O forse no, ma anche in questo caso – un racconto di forza straordinaria, di cruda e poetica verità, in cui i corpi di Ada e Daria, sua figlia, entrambi malati ma con diagnosi e tempi diversi, s’incontrano in un percorso straziante – la volontà di far defluire liberamente il dolore senza ombra di autocompiacimento, ma come chiusura di un cerchio che doni conforto ad altri, mi sembra evidente. Lo è a partire dall’esergo, in cui è riportata la frase di Rita Charon (medico internista e studiosa di letteratura): «È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio».
Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant'anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontare la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza.
Vero è che in proporzione sono più gli scrittori donna a dare spazio a queste tematiche, a mettere le mani nello strazio quotidiano, che è piccolo, lo ripetiamo, soltanto perché prende le mosse da un vissuto personale, non perché non assuma un carattere universale. Ma le donne, bisogna ricordarlo, vengono sempre classificate come le casalinghe della letteratura, quelle che si limitano agli affari di famiglia, quelle che descrivono la vita domestica, quelle che lavano i panni sporchi sulla nobile pagina letteraria. La questione, tuttavia, è più spinosa di così, e risale a moltissimo tempo fa.
Mi viene in mente un’intervista a Lalla Romano (Le signore della scrittura di Sandra Petrignani, La Tartaruga) risalente a qualche decennio addietro, quando Petrignani le chiese cosa significasse il fatto che veniva spesso definita come “scrittore della memoria”. La risposta di Romano mi pare illuminante:
«Ah, non lo so. È una definizione generica che non significa niente. La memoria è un mezzo per fare letteratura. (…) Quando uscì La penombra che abbiamo attraversato, poco tempo dopo Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (entrambi i romanzi si basano sulla dimensione famigliare e su alcune dolorose esperienze private, ndr), fummo liquidate tutte e due come scrittrici di confessioni. Ma scrittori della memoria sono un po’ tutti. (…) C’è chi trae ispirazione dalla vita degli altri e chi dalla propria, non fa grande differenza, purché si sia in grado di interrogare la propria esistenza tirandosene fuori».
L’ho riportata per intero perché penso che di fronte a queste parole non sia necessario aggiungere troppo, se non che la questione, appunto, è più complessa di come la intendiamo oggi.
L’intento di molta “scrittura delle donne”, io credo, è quello di non eludere i problemi, di prendere di petto le rogne che ci trasciniamo dietro ogni giorno e che talvolta abbiamo vergogna ad affrontare con noi stessi. Non c’è compiacimento o pornografia del dolore in questa scrittura, non c’è una banale confessione priva di analisi, non c’è narrazione senza interrogativi, dubbi, paure comuni.
C’è più che altro una buona dose di coraggio, di consapevolezza, in molti casi anche di spirito di denuncia, come è accaduto con Alba De Céspedes (recuperiamo Dalla parte di lei), Laudomia Bonanni o Joan Didion, (penso nello specifico al suo Blue nights, in cui la scrittrice riflette sulla morte della figlia).
Maternità oscura, maternità rifiutata o negata; gestione della propria identità, riconoscimento dei ruoli, difficoltà sociali e private. Le donne non lavano i panni sporchi in pubblico, ma scrivono spesso di famiglia perché sanno cosa vuol dire essere figlie, madri, esseri umani con un bagaglio storico, culturale (pieno di pregiudizi) ed emotivo complicato da gestire. Donne che scrivono e parlano con spietata lucidità e una libertà sempre nuova, in continua costruzione.
Di
| Einaudi, 2023Di
| Elliot, 2023Di
| La Tartaruga, 2022Di
| Mondadori, 2021Di
| Cliquot, 2021Di
| Il Saggiatore, 2021Ti potrebbero interessare
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