Sconfinando

Piazza Filangieri 2. Milano passa (anche) da qui. Il bello della regola

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Piazza Filangieri 2, se non conoscete questo indirizzo o non siete della mala o non siete di Milano.
Ma mì, ma mì, ma mì, quaranta dì, quaranta nott, a San Vitur, a ciapà i bott… mi sun di quei che parlen no”. Così recita una delle più struggenti ballate che raccontano la Milano della Resistenza e della guerra. Al numero civico 2 di questa piccola piazza, a due passi dalla trafficatissima arteria di Viale Papiniano, sta San Vittore, il carcere più famoso di Milano. Che poi, a ben vedere, proprio “carcere” non è: San Vittore è infatti una casa circondariale. E c’è una bella differenza! Una casa circondariale, infatti, ospita temporaneamente detenuti in attesa di giudizio o condannati a pene brevi. Ma non sempre le cose funzionano così. Non al momento, non qui a San Vittore-Milano-Italia. E il dibattito sulla riforma della Giustizia, che ovviamente coinvolge in maniera forte tutto il sistema penitenziario italiano, è materia di discussione incandescente in questi ultimi mesi.

San Vittore è un nome che risuona nelle parole e nelle orecchie di tutti i milanesi perché si trova lì, in mezzo alla città, tra un Salone del Mobile e uno spritz. Da qui sono passati, almeno metaforicamente, tutti quelli che hanno messo Milano al centro della loro storia, del loro racconto, da I Gufi a Jannacci, da Strehler a Gaber alla Vanoni, e in tempi più recenti Ghali ed Emis Killa.

A far chiarezza su quali e quanti siano, esattamente, i rapporti “fra quel che sta dentro e quel che sta fuori” ci aiuta Edoardo Albinati, scrittore (Premio Strega 2016 con La scuola cattolica) e traduttore, ma anche volontario da molti anni presso il Carcere di Rebibbia, uno dei tantissimi, che ogni giorno varcano il portone delle carceri per mettere al servizio di una comunità il proprio tempo e le proprie competenze.

“Uno dei problemi tipici della vita carceraria è che sia totalmente extra territoriale, cioè che il carcere sia un luogo di cui non sappiamo nulla, totalmente impermeabile al mondo esterno…  invece sarebbe molto proficuo, non solo per i detenuti ma in particolare per il mondo esterno, conoscere la realtà carceraria, per rendersi conto di che cos'è veramente il crimine e di che cos'è la punizione. Ma questo serve moltissimo anche per chi sta dentro, per non tagliare definitivamente i ponti con quella realtà a cui prima o poi faranno ritorno”

Confini, dunque. Ma anche ponti per attraversarli. Ponti che, fuor di metafora, per una realtà carceraria come quella di San Vittore a Milano diventano attività, incontri, occasioni di scambio e di confronto nelle quali la lettura trova un ruolo centrale, soprattutto da quando - a capo di questo storico istituto - c’è un uomo come Giacinto Siciliano.

Nato a Lecce, classe 1966, Siciliano vanta una lunghissima carriera ai vertici del sistema carcerario italiano. Ha lavorato come direttore in diversi istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale e da lungo tempo ricopre anche il ruolo di formatore all’interno delle Scuole di Alta Formazione per l’Amministrazione Penitenziaria. Uomo delle istituzioni, dunque, ma non solo. Oltre alle pubblicazioni specializzate, Siciliano è riuscito a istituire un ponte con il fuori, con noi, con la realtà che sta attorno al carcere anche attraverso una intensa attività di scrittore.  E i titoli dei suoi libri, L'impatto del teatro in carcere fino all’ultimo Di cuore e di coraggio (pubblicato nel 2020 per Rizzoli), lasciano intendere bene il modo di intendere il suo ruolo istituzionale.

Di cuore e di coraggio
Di cuore e di coraggio Di Giacinto Siciliano;

Leggendo i ricordi di Giacinto Siciliano, si squarciano davanti agli occhi dei lettori le realtà più delicate delle carceri, dalle rivolte ai suicidi. Al tempo stesso si comprende cosa voglia dire gestire e tentare sempre, anche nei casi estremi, di avviare un percorso di recupero.

Che Siciliano sia poi un comunicatore efficace, ben capace di esprimere il valore della propria esperienza attraverso la parola scritta, è dimostrato anche dal fatto che il suo Di cuore e di coraggio ha sbaragliato una foltissima concorrenza di libri scritti da autori blasonati, per approdare alla fase finale del torneo letterario organizzato da Robinson, settimanale culturale di Repubblica.

Un saggio della capacità persuasiva di Siciliano? Eccolo, ad apertura di una lunga intervista nel corso della quale passeremo continuamente attraverso i muri che dividono ciò che sta dentro da ciò che sta fuori, per rompere uno stigma che è isolamento e condanna esistenziale, prima ancora che giuridica.

"Ci vogliono cuore e coraggio per poter anche solo immaginare di trovare qualcosa di salvabile in un detenuto che magari si è macchiato di un crimine orrendo. Il mio compito è quello di sospendere il giudizio. Negli ultimi tempi il carcere sta diventando sempre più il posto dove si butta dentro tutto quello che fuori non funziona ma noi dobbiamo prendere atto e capire chi è la persona che c'è dietro, che è una persona che ha una storia, un presente e deve avere un futuro. E il carcere è l'unico posto dove tu puoi provare a costruire un futuro.”

Direttore, che tempo fa oggi a San Vittore? Ovvero, come si colloca questa istituzione all'interno del panorama penitenziario italiano?

San Vittore è sicuramente una realtà molto complessa. È una grande casa circondariale dove entra ed esce gente in continuazione. Accogliere chi entra è la grande priorità, ma in qualche modo questo crea frenesia. E il problema non è solo il posto, ma riuscire a trovare persone capaci di convivere con culture età, esigenze diverse. Negli ultimi due anni è salito tantissimo il numero degli stranieri che provengono dai campi profughi della Libia, quindi soggetti con evidenti situazioni di stress post traumatico, molto difficili da gestire. E la necessità di gestire la quotidianità corre il rischio di far diventare queste cose quasi normali… ma non lo sono. E non vogliamo che lo siano. Per questo è fondamentale il tentativo di rispettare quanto più possibile tutto ciò che può servire alla persona, per ridurre al massimo i danni finché è qui da noi.

Nella sua esperienza, qual è il modo migliore per far percepire il valore dell'agire responsabile, per avvicinare i detenuti alla società?

Il carcere è uno strano posto dove teoricamente si potrebbe vivere di divieti, ma col tempo ho scoperto che questa cosa non funziona, perché il problema non è far rispettare le regole: il problema è portare le persone a scegliere il bello della regola, a non contrapporsi al sistema-Stato.

Io penso che il carcere debba essere un sistema di relazioni positive, in cui si portano le persone a confrontarsi, non a porre divieti, per costruire una comunità, addirittura migliore di quello che è il fuori.  Perché, poi, si tende a dare per scontato che in carcere le regole non si rispettano, quando in realtà, molto spesso, le regole non si rispettano neanche fuori. E c'è sempre un momento nella relazione in cui si apre una falla, un buco, e tu devi provare ad entrare. Ovviamente le cose si fanno in due: io posso obbligarti in qualche modo a rispettare le regole, ma non posso comprare la tua voglia di rispettarle.  Penso che se noi operatori in carcere ci concentriamo molto su questo, se lavoriamo molto sulle relazioni fra detenuti, con le persone che entrano da fuori e con la collettività, in qualche modo riusciamo ad aiutare le persone. 

E come è possibile organizzare iniziative per rendere questa breve permanenza fruttuosa?

È una grande sfida perché, prima del Covid, la maggior parte della carcerazione corrispondeva alla fase del processo e spesso, nel momento in cui veniva condannata, la persona andava via.  Ma se non si può ragionare sul lungo periodo, non si può rinunciare all'idea di dare costantemente nuovi stimoli, portare la persona a ragionare sul reato e sulle conseguenze di quello che ha commesso, spingendolo a ricostruirsi un percorso, una vita, anche insieme agli operatori. A San Vittore c'è questa grande relazione con gli operatori esterni che hanno sempre rappresentato una componente molto forte. L'idea è fare attività non di mero intrattenimento ma di relazione e di confronto. Quindi si lavora molto sulla cultura, sul tentativo di far riflettere le persone, di farle confrontare.

E quindi, spazio anche per la lettura e per i libri? Che ruolo giocano all’interno di San Vittore?

La lettura ha un ruolo molto importante perché è una grande possibilità per confrontarti non solo con il testo ma anche con chi te lo propone, con quello che dici alla fine della lettura, al messaggio che riesci a passare. In carcere abbiamo otto biblioteche, ma non è solo perché sei in carcere e qualcuno ti porta un libro che tu inizi a leggere. Ci sono tante persone che un libro non l'hanno mai letto, in vita loro.   Allora bisogna attivare una serie di meccanismi, fare in modo che chi legge possa essere in grado di comunicare quello che ha letto, che attorno al libro ci sia curiosità, qualcosa che ti porti a dire, fammi vedere se c'è qualcosa di diverso rispetto ai miei schemi. Per questo ci sono attività, presentazioni da parte degli autori, momenti di lettura e di riflessione con i volontari.

C’ è una biblioteca che porta il nome di uno scrittore davvero sui generis…

Sì, un paio d'anni fa abbiamo intitolato la biblioteca a Bruno Brancher, il vecchio malavitoso milanese che, attraverso le lettere che riceveva e che spediva si è appassionato alla scrittura.  E l'intestazione di una biblioteca all'interno di un carcere a un detenuto che, attraverso la lettura e la scrittura, ha materialmente cambiato la sua vita, è stato un esempio molto forte, perché le persone che sono all'interno di un carcere hanno bisogno di vivere gli esempi, quello dell'operatore ma anche quello del compagno che ce l'ha fatta.  C'è stato un momento in cui in una delle nostre biblioteche un detenuto aveva instaurato questa abitudine: ogni volta che dava un libro o al momento in cui qualcuno lo ritirava, doveva scrivere perché quel libro era piaciuto e che cosa aveva lasciato. Così diventava un messaggio che passava da uno all'altro.

Il libro è superare il muro, uscire in qualche modo dalla tua quotidianità.  Molto spesso la lettura si trasforma in scrittura e allora c'è un grande potere catartico.

Sappiamo che a San Vittore operano tante realtà come Biblioteche in Rete, La Casa della carità, il Gruppo Carcere di Cuminetti. Come agisce, questa rete?

L'obiettivo è quello di mettere tutte le nostre biblioteche in rete, per entrare a tutti gli effetti nel circuito bibliotecario cittadino, perché anche questo può aiutare a far diventare San Vittore parte della città e del suo territorio. Questo progetto ci vede direttamente coinvolti col Settore Biblioteche del Comune di Milano e ci consente di avere libri oggetto di donazioni ma anche di avere un servizio che raccoglie e seleziona e ci porta quello che in questo momento può servire. Non sta scritto da nessuna parte che siccome sei in carcere devi prendere tutto ciò che è vecchio, abbiamo il dovere di dare al cittadino che sta dentro le stesse cose che può trovare fuori, altrimenti alimentiamo la cultura dell'essere perdente, dell'essere sconfitto.  E penso anche al ragazzo, alla persona che prenderà un libro sapendo che, prima, è stato letto da chi ha sbagliato, al passaggio di emozioni, che si può generare e nel momento in cui riusciremo a farlo anche questo sarà un valore aggiunto.

In questi giorni ferve il dibattito a proposito della riforma della Giustizia. Una riforma lungamente attesa: quali sono le sue percezioni riguardo?

Non entro nel merito di qualcosa che è molto più grande di me ma, da operatore di un settore della giustizia delicato qual è quello del carcere, sono convinto che non si possa più procrastinare un intervento sistematico, drastico.  Penso prima di tutto al tema della prescrizione.  Uno dei grandi principi è che il processo deve essere breve e che non si possono lasciare le persone in sospeso per troppo tempo. Penso che sia veramente importante in questo momento ragionare, trovare forza e unione.  È un settore troppo delicato per non muoversi con intelligenza, con equilibrio, tenendo presente quello che è realmente il bene collettivo e le finalità della nostra Costituzione. Non è questo il settore per le contrapposizioni. Il carcere ha bisogno di tornare alla normalità.

A proposito di nuove normalità: fino a qualche anno fa le regole rispetto all'uso di internet in carcere erano strettissime.  Oggi è cambiato qualcosa? e - se sì – in quale direzione?

Diciamo che ci sono piccoli tentativi di apertura.  Personalmente, non penso che possano esserci grandi problemi nell'autorizzare la navigazione verso siti strutturati, in modo da consentire alle persone di vivere, di sentire una loro libertà e normalità.

Perché io non posso costruire un carcere che è diverso da quello che succede fuori, altrimenti non abituo la persona a vivere fuori. Non la abituo a scegliere, a comportarsi correttamente con le regole del fuori. Gli strumenti per limitare usi impropri ci sono. Il Covid per la prima volta ci ha dato le videochiamate e questo è stato formalizzato, quindi vuol dire che in qualche modo qualcosa si sta muovendo e io mi auguro che una riforma più ampia, dopo quella della giustizia, possa portare a una serie di ragionamenti anche sul sistema penitenziario e sul mondo di intendere il carcere.

Direttore, che spazio – reale e figurato - occupa San Vittore, all'interno di Milano?  

Sicuramente l'istituto penitenziario "fuori" dalla città offre maggiori condizioni di sicurezza. Essere in centro comporta una serie di limiti, ma ha anche tutta una serie di vantaggi: ti senti parte di questa città. Una delle grandi sfide cui stiamo lavorando, in un momento in cui spesso si parla della chiusura di San Vittore, è quella di dire: "San Vittore è un quartiere della città." Io ho fatto per anni il direttore di strutture di periferia, moderne, bellissime, dove puoi fare tante belle cose… però poi ti manca il contatto con la realtà e ti manca il volontario, l'operatore che spesso viene solo se non deve prendere la macchina.  

Ultima domanda: questa rubrica si chiama Sconfinando. Cosa evoca in lei, questo gerundio? 

Io penso che il confine e lo sconfinamento siano strettamente legati ai limiti della nostra mente. Questo è un posto incredibile dove ci accorgiamo tutti quanti, operatori e persone detenute, di quanto il contesto da cui proveniamo ci limiti e ci condizioni. Allora il mio sogno è quello di sconfinare oltre quel muro, che non vuol dire negare il muro, che ci deve essere ma che va reso il più trasparente possibile per far capire che ci sono realtà diverse, dentro e fuori.
Quando queste realtà si incrociano, le menti riescono a superare i limiti.

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