Tracce di Tito

Robe da chiodi

"Un libro è come un chiodo," dico a una persona che sta facendo un libro, appunto, per la collana di graphic novel da me curata (Feltrinelli Comics). "Un libro resta lì, piantato. Dentro uno scaffale di una libreria. Di tante librerie, si spera. Non è come un articolo di giornale, in carta oppure online, che alla fine scorre via. Importante anche quello, sia chiaro: è uno scorrere che genera un fiume mai fermo, che ci fa sentire e capire il nostro tempo. Però un libro è un chiodo, grande o piccolo che sia. È fatto per restare, per essere ritrovato. Per finirti sotto gli occhi, ogni tanto. Un chiodo o, se vuoi, una roccia che resta ferma dentro a un fiume che scorre."

Ho fatto un discorso così, e poi ho offerto da bere per premiare la sopportazione di quella persona, e perché avevo la gola secca.

Poi la notte scorsa, mentre riflettevo sul pezzo da scrivere per voi, questa settimana, ho capito che anche i dischi sono chiodi. Lo sono quelli fisici, di vinile o cd.

Con tutto il rispetto per la musica in streaming, che permette una fruizione economica e universale. È bello perdersi, su Spotify e simili. Ma è bellissimo trovare, ritrovare e ritrovarsi nella propria collezione di dischi fisici. Anche nella più disordinata, soprattutto in quella. La musica scorre, attorno a te, nel mondo, ma quei dischi rimangono lì.

Mi è capitato due volte di vendere dei dischi, tanti. La prima negli anni Novanta, quando mi ero convinto che il vinile fosse morto (vi vedo, che ridete). Quella volta mi sono disfatto di un migliaio di album e del giradischi. Un Thorens, oltretutto (okay, adesso basta ridere).

La seconda volta è stato nel corso di un trasloco, una quindicina di anni fa, perché volevo fare un po' di spazio. Mi sono liberato di qualche centinaio di cd alquanto improbabili, per così dire, che risalivano ai tempi in cui, da giornalista musicale, ricevevo a raffica di tutto un po'.

In entrambe le occasioni, soprattutto la prima, mi sono pentito. Quei dischi, pure quelli brutti, erano una parte di me, della mia storia. Erano pezzi della colonna sonora della mia vita, perfino quelli rimasti nel cellophane. Lo so, non è molto razionale, però sono sincero.

Senza contare che parecchi di quei dischi in vinile, che avevo ricomprato come cd, poi li ho riacquistati, nuovamente come vinili. E adesso che cosa doveri fare con i relativi cd? Non è che poi, fra dieci o vent'anni...

Meglio non correre rischi. So già che finirei per soffrire.

Così, con tutta questa confessione dai contorni freudiani, rischio di chiudere la puntata senza avervi consigliato nemmeno una canzone. Corro ai ripari. Che sia un chiodo bello grosso, allora, uno di quelli che non devono mancarvi, secondo me.

In questi giorni stiamo tutti a parlare di Get Back, il monumentale e insieme intimo documentario sui Beatles, e tra l'altro di quanto era bravo e sottovalutato George Harrison. Facciamo allora che non vi consiglio anch'io Let it Be, ma vi straconsiglio il primo disco solista di Harrison dopo essere uscito dal gruppo: All Things Must Pass. Una raccolta di canzoni spesso perfette, a tratti poetiche, sempre generose, che costruiscono un ponte ideale fra gli anni Sessanta e i Settanta, con l'istinto e la freschezza dei primi e la grandiosità e la ricercatezza dei secondi.

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