Quando mi mettevo a tavola per mangiare [la mia gatta] Prunilde mi si sedeva di fronte sulla tovaglia e pretendeva di assaggiare qualsiasi cosa avessi nel piatto.(...) Cercava di bere l’acqua dal mio bicchiere, fino a quando mi decisi ad apparecchiare per lei con un coperto completo, piatto e bicchiere ma naturalmente senza posate. Il mio amico Guido diceva ridendo che, se avessi avuto la pazienza di insegnarle, avrebbe imparato anche a mangiare con coltello e forchetta
A chi smeraldi a chi rane: Bianca Pitzorno non avrebbe potuto trovare un titolo migliore per la sua autobiografia, uscita oggi per Bompiani. La celebre scrittrice di libri per bambini – ma ha scritto anche saggi, romanzi e tradotto autori come Tolkien e Sylvia Plath – racconta qui per la prima volta la sua lunga e avventurosa vita, dall’infanzia vissuta in Sardegna fino alla vita adulta, poi, a Milano, e lo fa attraverso il suo rapporto con gli animali.
L’autrice di questo memoir è nata e cresciuta in una Sardegna dove campagna e città, terra e mare sono ancora un continuum e una bambina curiosa può passeggiare in piazza accompagnata dal germano reale, tenere sotto il banco di scuola la tartaruga Andrea o covare sotto l’ascella un uovo di canarino convinta di vederne nascere un pulcino.
Il titolo viene proprio da un episodio tra i più simpatici del libro. “A chi smeraldi, a chi rane” è infatti la frase, un po’ sconsolata, che le rivolge sua zia una volta che va a trovarla nella sua casa di studentessa squattrinata. Mentre mostra orgogliosa le foto del matrimonio di una cugina – che esibisce una collana di smeraldi – la zia si accorge che Bianca custodisce in un barattolino di vetro il regalo più prezioso del suo, di fidanzato: tre piccole raganelle, di un bel colore verde brillante.
Senza alcun allarme lo sguardo di mia zia cadde sulla boccia che stava sul tavolo. Non c’era niente di strano a tenere dei pesci rossi. Ma perché quel coperchio di tulle? Lo spostai, infilai dentro la mano e tirai fuori Griselda mostrandogliela con orgoglio. Era bellissima, i raggi di sole che entravano dalla finestra colpivano il suo dorso verde, brillante e sfaccettato. “Se guardi tra le foglie ce ne sono altre due,” dissi. “Me le ha regalate il mio innamorato”
I parenti di Bianca, e in primis i suoi genitori, hanno dovuto accettare ormai da molto tempo le stranezze di questa bimba cocciuta e tenace. Bianca porta a spasso la sua anatra nella piazza principale di Sassari e una volta prova a covare, sotto la sua ascella, un uovo di canarino rifiutato dalla mamma; si lancia in una rissa di fronte alla chiesa pur di salvare un gabbiano malconcio (e ingrato), ricevendo in cambio i rimproveri del parroco, e piange fino a farsi venire la febbre quando scopre che, nel suo piatto, c’è l’agnellino con cui aveva giocato fino al giorno prima.
È quasi incredibile la quantità di animali di ogni forma, dimensione e natura che ha segnato in un momento o nell’altro la vita di questa donna straordinaria. Dal topolino senza coda acquistato da sua sorella, che lo credeva una cavia, alle adorate tartarughe – come Andrea, che Bianca portava con sé ogni giorno a scuola, nascosto nel sottobanco – da un cucciolo di leone noleggiato per errore da una casa di produzione televisiva a dei piccoli pipistrelli nutriti dalla bimba con zanzare e moscerini; passando per uccelli di ogni tipo e, persino, tonni.
Con una profondità e una limpidezza di sguardo che catturano senza scampo nel flusso della narrazione, Pitzorno mette in fila tanti piccoli racconti – altrettanti gioiellini – che hanno per protagonisti assoluti gli animali e che la scrittrice ha il merito (o forse dovremmo dire, semplicemente, il grande talento) di dipingere come personaggi a 360 gradi, ognuno con la propria distinta personalità.
Così, qualcuno le è nettamente antipatico, qualcun altro la fa ridere da morire (ma la esaspera anche); con alcuni ha un rapporto di complicità pari a quello che si potrebbe avere con un amico, con altri c’è, nonostante un rispetto di fondo, un’incompatibilità insuperabile.
In questi racconti gli animali non sono ridotti – come a volte accade – a simbolo di innocenza assoluta, contraltare alla bassezza e alla crudeltà umane, ma vengono, di volta in volta, dipinti dalla penna dell’autrice con la tavolozza variegata che gli scrittori, di solito, riservano alle persone. In questo modo, Pitzorno restituisce agli animali tutta la loro dignità di esseri viventi e unici, inserendoli a pieno titolo nella sua geografia affettiva assieme a parenti, amici e fidanzati.
Dignità di cui invece, troppo spesso, tendiamo a spogliare le creature non umane, pensando ingiustamente di averne il buon diritto – che si tratti di adottare a tutti i costi un animale da tenere in appartamento, di andare a caccia per divertimento o di creare degli allevamenti intensivi – non possiamo restare indifferenti di fronte al loro muto grido di dolore, come i pescatori durante la mattanza dei tonni, cui Pitzorno assiste a Stintino.
Ciò che oltre il sangue mi faceva impressione era che la strage si svolgeva nel più assoluto silenzio da parte delle vittime. Gli uomini gridavano, lanciavano richiami, grida di esultanza, imprecazioni. Ma dalle bocche dei tonni non usciva alcun suono, e questo mi faceva sembrare ancora più ingiusta la disparità di forze
Con A chi smeraldi a chi rane, Pitzorno si pone nel solco di libri di strabiliante successo come L’anello di Re Salomone di Konrad Lorenz e La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell, pur esplicitando, fin dall’inizio, la mancanza di qualsivoglia vocazione all’esattezza scientifica.
Il tono umoristico e delicato di questi racconti li avvicinano, anzi, quasi più a un Lessico famigliare. La sensazione che ci coglie leggendo è, infatti, quella di entrare in un mondo intimo e privato, in cui però veniamo subito accolti calorosamente, senza sentirci mai ospiti. Così, quando chiudiamo il libro, ci pare di dover lasciare controvoglia la casa di un parente che ci ha coccolati per un po’, e dal quale torneremo volentieri.
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