Gli era rimasto soltanto un capezzolo. E una volta mi propose questo indovinello: “Ha tre occhi, tre capezzoli e due buchi del culo: chi è?” “Mi arrendo,” dissi. E lui: “Paul Slazinger e Rabo Karabekian.”
Già con questa citazione entriamo dritto per dritto, senza passare dal Via, nel clima del romanzo di Kurt Vonnegut e facciamo amicizia con alcuni degli elementi che più spesso tornano nella sua scrittura: l’ironia e la guerra.
L’ironia dell’indovinello è evidente, e a quel punto del romanzo assicuro ai lettori che una risata scappa; la guerra è sottintesa, è la colpevole che ha procurato al protagonista la perdita di un occhio, e al suo amico un taglio nella pancia dal mento alla vita, passando per uno dei due capezzoli.
Nome: Rabo. Cognome: Karabekian. Nato a San Ignacio di California nel 1916, da genitori armeni. Stato civile: vedovo. Professione: pittore e collezionista d’arte. La grande casa sulla riviera di East Hampton – dove Rabo vive con la cuoca e la figlia di questa, Celeste – ospita un’importante raccolta di quadri dell’espressionismo astratto.
Facciamo così la conoscenza di Rabo Karabekian, il protagonista alter ego dell’autore (e non sarebbe la prima volta, ricordiamo Perle ai porci), che in apertura di romanzo non ha problemi a riconoscere la componente autobiografica di Barbablù: come Vonnegut, il nostro Karabekian è nato negli Stati Uniti da genitori immigrati, proprio come lui ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale (che lo ha gentilmente ricambiato con una benda sull’occhio), e nel momento in cui scrive ha alle spalle un divorzio, un nuovo matrimonio che lo ha lasciato vedovo, e due figli che non gli rivolgono più la parola. Ecco su questa parte forse qualche dettaglio si distacca dalla biografia dell’autore, ma è certo che quando ha pubblicato Barbablù, nel 1987, Vonnegut non stava passando un buon momento, tra la crisi depressiva e il tentato suicidio.
Barbablù, che oggi rileggiamo nella nuova edizione tascabile di Bompiani, è uno degli ultimi romanzi dell’autore, e anche uno dei meno conosciuti – per quanto poco conosciuta possa essere l’opera di uno dei più grandi romanzieri americani. Questo libro ricade nella parte finale della sua vita, che canonicamente è divisa in tre, dopo le prime opere fantascientifiche (aggettivo che non piaceva a Vonnegut), e i romanzi di maggior successo, tra cui Ghiaccio neve e Mattatoio n. 5.
Siamo nella riviera di East Hampton, a Long Island, dove in una magione di 19 stanze, meta di studiosi e appassionati del movimento artistico dell’espressionismo astratto, vive e colleziona opere Rabo Karabekian, uno degli esponenti del movimento in questione, nonché pseudo mecenate di artisti come Terry Kitchen (che non è mai esistito), Jackson Pollock e Mark Rothko (che invece sono esistiti). Quest’uomo, nella miriade di “fortune” che hanno costellato la sua vita, oggi si trova a scrivere un diario, sotto consiglio – insistito – della strana ospite Circe Berman, l’inquilina geniale a suo modo, che occupa una delle stanze per scrivere in santa pace un romanzo sulla vita del marito defunto.
Inizia il viaggio e siamo catapultati da un angolo all’altro della storia personale di Rabo: figlio di genitori armeni, ora in California, nonché abile disegnatore, è diventato apprendista di Dan Gregory, eccentrico e misogino artista, attraverso un carteggio scambiato con la di lui amante. Sullo fondo gli eventi storici più importanti che hanno solo sfiorato la sua vita, come l’eccidio turco degli armeni a cui sono scampati i suoi genitori, o l’hanno centrata in pieno, come la Seconda Guerra Mondiale, dove ha combattuto una sola volta (e gli è bastata per rimanere orbo), mentre nel frattempo sgraffignava e comprava per pochi soldi le opere di enorme valore che adesso formano la gigantesca pinacoteca nella magione newyorkese.
Ce n’è di carne al fuoco, ma come sempre è magistralmente diretta dalla scrittura di Kurt Vonnegut, che non si lascia intimidire dai salti temporali o dalla misura breve del diario; anzi, questi sono espedienti perfetti per risaltare l’ironia-lampo, anche dark, della pagina, e dire prima e meglio quello che vuole, con la solita vena critica che spazia dal tema dell’insensatezza della guerra, alle forti contraddizioni sociali che costellano, per esempio, anche il mondo dell’arte, contro cui, in questo particolare romanzo, Vonnegutt punta il dito.
“Ecco cosa ne penseranno, di qui a cinquant’anni, della nostra guerra, i giovani del futuro,” disse Kitchen, “uomini d’una certa età, cartucce a salve e succo di pomodoro.” Proprio così. Lo vediamo, oggi.
Ma la vera genialità risiede nel particolare del patataio, questa specie di rudere nel giardino di Long Island dove Rabo Karabekian custodisce un segreto che si vocifera essere l’opera d’arte più bella del movimento espressionista, e che tutti gli chiedono di rivelare, ricevendo come risposta un ostinato NO. Oltre a fornire una spiegazione al titolo del romanzo, la storia del patataio e di cosa contiene vi regalerà pagine di pura ekphrasis, ovvero semplice e pulsante gioia descrittiva.
Questo libro è consigliato ai lettori che volessero ridere di gusto: resterete affascinati dai dialoghi strambi e grotteschi, come dai personaggi che li pronunciano, quel parterre cosmopolita e affollato di uomini e donne stravaganti, che con la loro genialità (con quella del loro autore) fanno di questo romanzo un mondo ricchissimo e un altro e alto esempio inanellato perfettamente nella biblioteca di Kurt Vonnegut.
“Non posso farci niente,” dissi. “La mia anima lo sa che la mia carne va facendo brutte cose, e se ne vergogna. Ma la mia carne continua a fare cose brutte e stupide.” “La tua che e la tua cosa?” domandò lui. “La mia anima e la mia carne,” dissi. “Sono forse separate?” disse lui. “Lo spero bene,” dissi. E risi. “Non ci tengo a essere responsabile per quello che fa la mia carne.”
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