Migliaia e migliaia di pagine - se si pensa che solo l’archivio del processo Vajont ne conta 25.000 - in questi sessant’anni che ci separano dalla catastrofe in cui hanno perso la vita quasi duemila persone, ci hanno parlato della disperazione, dei silenzi, della rabbia e delle infinite battaglie per ottenere giustizia, per mettere in luce le responsabilità e le colpe.
Ma oggi, più che mai, la battaglia per conservare la memoria non basta più. Già dal titolo, Mai più Vajont, l’esauriente saggio di Di Stefano e Iacona (Fuoriscena) si pone come monito al futuro, teso alla necessità della prevenzione, della cura del nostro mondo. Si fa urgenza, riportando in vita le testimonianze dei sopravvissuti nelle pagine della cronaca di quei giorni, nella dettagliata ricostruzione dei fatti, la presa di coscienza degli errori che l’uomo non può più permettersi di ripetere.
Qui potete anche leggere l'intervista fatta a Paolo Di Stefano dalla nostra redazione.
Sessanta anni dopo, Paolo Di Stefano del «Corriere della Sera» e Riccardo Iacona, conduttore di Presadiretta (Rai 3), raccontano il disastro del Vajont, «il più clamoroso degli eventi quasi-fotocopia» che hanno segnato il nostro Paese
In queste pagine riprendono vita, con tutta la loro forza originaria che ci porta talvolta a indignarci ma sempre sentendo la sofferenza delle testimonianze scorrere sotto pelle, i reportage, gli atti del processo, e le inchieste che portano le firme dei grandi giornalisti dell’epoca, spesso legati politicamente alle testate per cui scrivevano, tanto che diventa interessante cogliere anche gli scontri, e le accuse, spesso non velate, tra i giornalisti di schieramenti politici differenti.
Fatalità o colpa?
Da una parte la tenace Tina Merlin, che si fa portavoce nelle pagine dell’Unità, dapprima dei montanari, nella difesa dei loro paesi, traditi e schiacciati dal potere che, espropriandoli delle terre, toglie loro dignità e fonti di sussistenza, e poi ancora portavoce delle paure e della saggezza degli abitanti che “sentono” e conoscono la montagna quasi ancestralmente, e si oppongono alla costruzione della diga. Lotta con loro, e darà voce anche ai pochi sopravvissuti alla ricerca di giustizia.
Dall’altra, le grandi firme di Montanelli, Buzzati, Bocca, che riportano testimonianze toccanti e sconvolgenti dell’accaduto, ma che si tengono a distanza dall’ambito della denuncia delle colpe umane.
“Una giornata qualunque.” scrive Paolo Passi da una pagina dell’Unità del 1973 riportata nel saggio di Di Stefano e Iacona, “ragazzini e anziani già a letto, giovani e adulti nei bar o in casa di amici a guardarsi una partita di calcio in tv”. La normalità travolta in un istante.
“L’annientamento di Longarone li colse così, nel terrore inesplicabile di un improvviso risveglio prima della morte”.
Questa normalità ci inquieta, perché dalle inchieste, dalle pagine dei giornali riportati nel saggio, ci accorgiamo che questa “normalità” era piena del senso dell’impotenza degli abitanti contro le decisioni del potere e dell’economia.
La fragilità della loro montagna, il Toc, messa a dura prova dalla costruzione della diga, era a conoscenza di tutti, ognuno si era opposto come poteva, con i loro pochi mezzi, alla sua realizzazione. Non essendoci riusciti, chiedevano continuamente ragguagli e mettevano in guardia sui rischi di una catastrofe imminente.
Fatalità o colpa?
“Sempre la stessa domanda, da decenni riemerge in occasione delle catastrofi italiane cosiddette naturali”, scrive Paolo Di Stefano, nel capitolo introduttivo alla ricostruzione del caso Vajont.
“Sessant’anni dopo, il modello Vajont è ancora drammaticamente attivo”, aggiunge Iacona, riportando l’attenzione al difetto di progettazione del ponte Morandi a Genova, dove ”i campanelli d’allarme che avrebbero dovuto allertare i gestori del ponte erano talmente tanti, ripetuti nel tempo(…) che avrebbero dovuto comportare l’immediata messa in campo di lavori di manutenzione”.
Ma la memoria delle catastrofi, la consapevolezza delle costanti delle tragedie annunciate, dovrebbero spingerci ad andare oltre la risposta, ad imparare dagli errori, ad insegnarci il rispetto del mondo che ci ospita. Mai più Vajont sottolinea l’ammonimento, l’esortazione al rispetto e alla cura del bene comune, all’utilizzo di competenze e risorse, perché non si continui ad intervenire "dopo”.
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