Il film narra la storia di un bambino che cresce nella Belfast dilaniata da conflitti e guerriglie, ma al contempo dotata di una insopprimibile vitalità. Fondamentalmente aderente alla storia vera del suo demiurgo (termine non casuale), ci porta in un lembo di Storia non troppo lontano, che tuttavia ha ancora ripercussioni e ricordi vividi in chi ne fu protagonista o anche solo passivo spettatore investito dagli eventi.
critto e diretto dal candidato al premio Oscar Kenneth Branagh, BELFAST è una commovente storia di amore, risate e perdita nell'infanzia di un ragazzo, tra la musica e il tumulto sociale della fine degli anni '60.
Fatte le dovute proporzioni, Belfast sta a Kenneth Branagh come The Fabelmans sta a Steven Spielberg, considerato che il secondo è di più ampio respiro e decisamente più spinto sulla fase autobiografica. Detto ciò, è chiaro che la tendenza di alcuni registi è quella – una volta pacificati dal successo – di aprire la porta del passato e analizzarsi. Inoltre, l’opera in questione ha fruttato – al suo regista e altresì produttore – l’unico Oscar vinto, quello per la sceneggiatura originale.
Titanico uomo-film, il sessantatreenne nordirlandese ha qui desiderato consegnare agli schermi una specie di confessione della visione – non a caso affidata al sapiente bianco e nero di Haris Zambarloukos, con Branagh dal 2006 – nella quale gli occhi infantili attraversano sia le brutture dei disordini ai quale “giocano” i grandi sia le piccole scoperte legate alla giovane età che intanto acquisisce consapevolezza di sé, tra le barricate, in un regno di calore, colore, dolore.
Il giovane protagonista è Jude Hill e intorno a lui si affastellano padre e madre (un Jamie Dornan che finalmente si leva di dosso le varie “sfumature di…” e al suo fianco un’ottima Caitríona Balfe) ma soprattutto nonno e nonna (il decano Ciarán Hinds e l’omologa Judi Dench).
Interessante notare come Branagh, che di solito si ritaglia anche ruoli da attore (quella che da sempre è la sua principale attività artistica, peraltro), nell’intento di vedere le cose con occhio esterno e al fine di evitare di intrappolarsi da sé in un qualsiasi ruolo, si esclude dalla recitazione: un rischio troppo elevato quando ci sono in ballo i ricordi e la volontà di fare i conti con le proprie origini e sofferenze.
La riuscita migliore del lungometraggio consiste proprio nella precisa alternanza tra mondo grande e mondo piccolo, tra eventi giganti ed eventi (forse) insignificanti, in una commistione così ravvicinata da far risultare quel tipo di esistenza, in quei periodi e in quelle zone, come una specie di roulette russa quotidiana, un vero terno al lotto di possibilità simili circa l’arrivare o meno al giorno dopo.
In sostanza: Branagh riesce a non far tremare la propria mano mentre gira (e forse lo aiuta il fatto di essere infine esploso proprio grazie alla cinematografia inglese e l’essere infine divenuto anche sir), eppure regala momenti di straordinaria intensità, specie quando pone le scelte sul tavolo come una non procrastinabile urgenza che quel tipo di vita metteva davanti ai suoi protagonisti. Difficile rimanergli indifferenti.
Ti potrebbero interessare
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente