La tragedia dell’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, avvenuta nella tragica data del 26 aprile 1986, viene narrata in cinque vibranti episodi nell’omonima serie tv, nel corso dei quali si capiscono le cause, le responsabilità e l’assurda mancanza di proattività da parte degli apparatčik di un’Unione Sovietica che stava per implodere, rappresentata nella sua devastante decadenza proprio dal disastro nucleare.
L’idea di base è venuta a Craig Mazin, già regista e produttore statunitense, là dove la regia è stata affidata – probabilmente prendendo qualche rischio, eppure risultando infine una scelta assolutamente vincente – a Johan Renck, autore svedese fattosi notare anzitutto come musicista devoto al dance/pop, salvo poi passare dietro la macchina da presa dirigendo svariati videoclip musicali per conto di artisti noti (Kylie Minogue, Robbie Williams e Madonna su tutti), quindi alcuni episodi di due serie celebri come “Breaking Bad” e “The Walking Dead”.
La storia vera del disastro che ha sconvolto il mondo, un racconto affascinante ed esaustivo che ha il ritmo incalzante di un romanzo. Tutti gli elementi necessari a capire cosa accadde, cosa significò e cosa significa Chernobyl oggi: i dettagli tecnici, le storie umane, gli aspetti politici ed economici e il modo in cui venne gestito il disastro nucleare. Un viaggio nel luogo e nel tempo in cui tutto ebbe inizio e tutto cambiò.
Da qui a diventare l’unico regista di una serie – destinata a diventare iconica – come “Chernobyl”, il salto è stato enorme, eppure chi ha creduto in lui ha avuto ragione.
La grandezza dell’opera stessa è racchiusa in una sequela di punti nevralgici: tutta la prima puntata che mette in scena il momento chiave, davvero inquietante e orrorifico ben più di qualsiasi slasher-movie; la narrazione del tentativo degli scienziati non asserviti al potere di raccontare il rischio immane (e qui emerge la statura attoriale di Jared Harris); la generale ignoranza, unita al disinteresse, dei politici atti solo a gestire una posizione di potere; le terrificanti conseguenze sui primissimi ignari soccorritori; la riduzione di una cittadina a mero spettro; la perfetta resa del grigiore totale di cui era permeata l’U.R.S.S.; l’ultima puntata – vero capolavoro all’interno del capolavoro – in cui, aldilà di ogni possibile comprensione cinematografica, viene narrata con puntualità agghiacciante la sequenza del disastro.
Al netto di Jared Harris – figlio del sommo Richard Harris, fino a questa serie non celeberrimo, benché spessissimo in sala in ruoli non da protagonista – si notano un dolente Stellan Skarsgård, una pugnace Emily Watson e l’ex modello irlandese Barry Keoghan. Interessante notare come le location prescelte siano entrambe lituane: in primis un sobborgo di Vilnius per restituire Prypjat’, in secundis la centrale di Ignalina, sita in Visaginas (considerata la gemella di quella ucraina, avendo per giunta due reattori analoghi, ora in disuso) per gli esterni del colosso stesso.
In sostanza: questa serie – che ha l’ulteriore pregio di non essere stata tirata per le lunghe – è dotata di un equilibrio narrativo rimarchevole, non disgiunto da un ritmo non banale, e restituisce la completa impotenza del mondo intero nel poter fermare i danni incalcolabili derivanti dalla somma dei peggiori difetti insiti nell’uomo. Quanto di più simile all’Apocalisse, per giunta sottolineato dalle musiche stranianti e come sempre inappuntabili della violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir.
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