Che sapore avrà uno strappo? Che gusto ha una ferita, la lacerazione di un popolo disperso in ogni parte del mondo, sospeso nel vento ma senza più radici a cui aggrapparsi?
Ha il gusto acre del sangue rappreso, del sudore, della paura, della bocca di una ragazzina adolescente che, a Roma, vomita spaghetti come se fossero kalashnikov sperando che la madre, a Mogadiscio, non le venga tolta per sempre. Ma ha anche il sapore della sabbia, della cannella e dei chiodi di garofano, del caldo sole del Corno d’Africa, del vento dell’ovest.
Che suono farà, invece, una mano che cuce, un filo che ripara? Il travolgente memoir Cassandra a Mogadiscio di Igiaba Scego (Bompiani) ha il suono, incredibile, del perdono.
Nell’impeto di un flusso di coscienza, l’autrice affida alla nipote Soraya le vicende della sua famiglia dispersa, diasporica, sparsa in cinque continenti ma unita dal Jirro.
Jirro in somalo significa “malattia”. […] Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente
Eppure, sulle stesse pagine in cui la parola Jirro compare 135 volte, l’autrice, “figlia scrittrice di una donna a cui hanno rubato l’alfabeto”, parla di amore, di cura, di perdono.
La sue parole leniscono le ferite come un balsamo antico e la sua narrazione culla come le ballate dei trovatori, come una favola di altri tempi, in cui il lessico famigliare, la corporeità e la vividezza delle frasi dipingono storie all’interno della Storia.
Scego “canta la sua gente. La bellezza condivisa. La memoria salvata”. Quella che per lei è possibile trovare solo all’interno di un libro, tra le lettere di quell’alfabeto che è stata la lingua dei colonizzatori, la lingua dell’odio, e che ora diventa sonoro, tattile, profumato di riconciliazione. Mescola le parole della famiglia, aabo, hooyo, edo, con la musicalità di una fra le sue lingue madri, l’italiano. Un italiano che alla fine si innalza su un piedistallo di maiuscole, come lingua intima che “scavalca il tempo. E le contraddizioni”.
Come zia, l’autrice si sente chiamata a raccontare una storia scomoda, che affida sotto forma di lettera alla nipote e, tramite lei, a tutte le giovani generazioni. Narra la Somalia e l’Italia, Roma e Mogadiscio, la guerra e la pace di un balcone profumato di basilico. Lei, malata di glaucoma agli occhi, una delle tante incarnazioni corporee del Jirro, apre gli occhi di una famiglia-Cassandra, una famiglia che, come l’antica sacerdotessa, ha visto troppa realtà.
L’autrice riporta sulla carta un ricamo orale, l’odissea di un popolo che vive dimenticato, seppellito tra le macerie e la polvere. A partire dalla copertina, dove è raffigurata la madre, fino ai ringraziamenti finali della sua “autobiografia in movimento”, si dipana una narrazione a spirale dove convivono la violenza dei colonizzatori e le ferite dei colonizzati. Un viaggio che ricostruisce la memoria attraverso la storia, quella con la S maiuscola, ma anche quella piccola, vissuta dalle persone comuni, quella di una famiglia come altre.
Il nostro archivio è hooyo. E chiunque abbia visto la Somalia prima della distruzione.
È così, nipote amatissima.
Il tuo aabo è un archivio.
Lo zio Abdul è un archivio.
Zahra è un archivio.
Mamma Halima è un archivio.
E naturalmente lo era aabo. Il mio dolce aabo, che mi manca ogni giorno di più.
E anch’io in un certo senso sono un archivio. Perché ricordo
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