Una certa puerilità inestirpabile, che non muore mai, pervade il nostro popolo; in pieno contrasto con il meglio di noi, l’ineffabile intelletto pratico
Avrò avuto sì e no tredici anni quando, agli inizi di un interesse che non mi abbandonò più, mi capitò tra le mani Le nozze di Cadmo e Armonia. E per me, che ero molte cose ma non un enfant prodige, quel libro rimase per molto tempo pieno di mistero e fascino. Mistero perché molte riflessioni mi risultavano inaccessibili. Fascino perché leggere di quei miti che cominciavo ad amare attraverso l’occhio e la voce di Roberto Calasso mi faceva sentire di fronte a un cantastorie.
Mi godevo una narrazione che emanava entusiasmo, affetto, profondità, ma che manteneva la semplicità e la meraviglia delle storie raccontate, tramandate di voce in voce sino ad arrivare a quella forma. A distanza di anni rileggo Calasso, che parla di Kafka e dei suoi racconti meno noti, i primi e gli ultimi, che soprattutto ama Kafka, e vedo che il mio stupore non è cambiato. Forse – anzi, di sicuro è così – perché neppure quel modo di scrivere da cantore, intellettuale, filosofo o sacerdote che sia, alla fine, in Calasso, è mai cambiato.
Tutti gli scritti di Kafka sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo nome si dichiarò soltanto alla fine, nei tre lunghi racconti di animali – Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, La tana – che hanno scandito gli ultimi mesi della sua vita, chiudendola come un sigillo.
I suoi libri destano stupore. Lui ancora di più
Questo libro, L’animale della foresta, fa parte degli ultimi scritti che Roberto Calasso aveva approntato per la stampa, e nelle sue 160 pagine riesce a raccontare una marea di cose – tra cui, non ultima, la meraviglia. In superficie, lo scopo è analizzare gli ultimi racconti di Franz Kafka, quelli dedicati agli animali: Ricerche di un cane, Josefine, la cantante o Il popolo dei topi e La tana. Ma, sin da subito, c’è qualcosa di anomalo che vibra al di sotto quest’epidermide letteraria.
Per esempio, quando scrive che c’è quel «cane che indaga sui cani – e non appartiene più alla loro comunità», si capisce che non sta parlando del racconto di Kafka, o che questo gli serve casomai per dire altro. Oppure, quando, parlando di Josefine, che è capace di cantare anziché fischiare come fanno tutti gli altri topi, e che fa arte anziché arrabattarsi nell’efficienza e nella praticità quotidiane, scrive che «Tutti sapevano, ovviamente, che Josefine non salvava nessuno». C’è, insomma, qualcosa di umano che Calasso cerca di far emergere da questi racconti animali. Qualcosa che, appunto, ha a che fare con l’inadeguatezza e la capacità di stupirsi.
Lui invece non ha mai cercato un rifugio che lo proteggesse. È assolutamente incapace di mentire, così come è incapace di ubriacarsi. Non ha neanche il più piccolo rifugio, non ha un tetto. Per questo è alla mercé di tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo
Non ha, Kafka, una tana. Cane fra i cani, ma diverso, artista che non salva, isolato ma non separato dal mondo che lo circonda. E Kafka diventa qui particolare tipo umano – antieroe, ne scrive Milena – commovente, epico nel suo schiantarsi contro una vita ai suoi occhi incomprensibile. Per lui tutto il mondo è meraviglia, cioè sempre nuovo, scoperta, luogo pieno di oggetti senza nome, ma anche esposizione, pericolo, forza incontrollata e, spesso, solitudine. È il tipo umano del narratore, che vede, legge, scruta e ancora, nonostante le sue immense biblioteche e le troppe pagine scritte, riesce a sgranare gli occhi come un bambino di fronte a una locomotiva.
Il tipo umano, mi veniva da pensare leggendo, cui facilmente, ora, posso ricondurre anche Calasso – fruitore instancabile e produttore anche postumo di meraviglia.
Alla fine si ricomincia tutti ad aprire nuovi passaggi, da vecchie talpe
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