Dimmi che ami quello che di me cambia di continuo, e io potrò continuare a darti quello che di me davvero non cambia: la voglia di sceglierti ogni giorno in modo differente, come diversa sono io ogni mattina quando apro gli occhi
Dare la vita è il titolo paradigmatico dell’ultimo libro di Michela Murgia, pubblicato postumo da Rizzoli all’alba del 2024; un anno che la scrittrice, scomparsa il 10 agosto 2023, non ha potuto vedere, ma che vede la sua voce ancora viva e libera di essere ascoltata.
La scrittrice «molto sarda, incredibilmente varia» consegna alla vita oltre la morte un pamphlet denso e infinito come eredità del suo pensiero e summa di interrogativi fecondi per il presente, nella speranza che si facciano futuri germogli di un nuovo rivoluzionario modo di pensare.
Pagine straordinarie che ci permettono di entrare nelle infinite sfaccettature degli affetti e di comprendere come aprire all’altrə non riduce ma amplifica l’amore.
Quello che Murgia mette in atto in queste centoventotto pagine è un magistrale esercizio di ars maieutica, con il quale si propone e ci propone di “interrogare fecondamente” le cose, al fine di generare, o meglio dare vita, a coscienze libere in grado di spaziare oltre i confini imposti dall’alto e che trovino nell’Altro la possibilità di un dialogo aperto e sempre inclusivo.
In questa cornice, trova esposizione un discorso lucido e politico in cui vengono alla luce due questioni chiave nella sua vita di zòon politikòn «animale politico», come definisce Aristotele l'essere umano; una definizione che risale al IV secolo a.C. ma che la scrittrice ha incarnato perfettamente, facendo della sua vita un puro atto politico e del logos un mezzo di relazione, tanto privato quanto pubblico, con l'alterità.
Con sguardo lucido, una penna chirurgica e l'ironia che la contraddistingue, Michela Murgia ci conduce nella selva semanticamente oscura di termini come queer family, dopo aver scavalcato l'ingresso del capitolo intitolato QUEER PRO QUO e interrogare per noi il concetto di queerness: una parola di origini antiche e che oggi più che mai qualifica quelle famiglie che, come la sua, lanciano appunto una sfida alle definizioni.
Queer, secondo i dizionari, è una parola vecchia di molti secoli. (...) Non a caso si dice che il primo uso di queer con il significato di omosessuale sia quello di una lettera infamante letta pubblicamente al processo che, nel 1895,portò alla carcerazione e poi alla morte di Oscar Wilde. Quando, negli anni immediatamente successivi, Virginia Woolf inizia a usare quella parola (per esempio in una lettera bellissima a Vita Sackville-West, o in Gli spilli di Slater non hanno punta, come mi ha mostrato la sua traduttrice Chiara Valerio), queer è dunque sulla soglia tra significati letterali e metaforici. Suggerisce comunque, nel vocabolario gergale anglosassone, una stortura, un’obliquità, una trasversalità; ennesimo eufemismo nemmeno troppo velato per riferirsi a tutto quello che eterosessuale, cioè diritto, "straight", non è.
Dopo aver rivelato di essere malata di cancro – alla malattia Murgia dedica Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, libro doloroso e necessario uscito per Mondadori tre mesi prima della sua scomparsa – l'autrice dichiara in un'intervista con Aldo Cazzullo per Il Corriere della sera di aver comprato una casa con dieci letti dove «la mia famiglia queer può vivere insieme», chiarendo il significato di questa espressione: «un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla».
E proprio in questo libro, l’autrice ci porta nelle pieghe della sua esperienza con la maternità e la filiazione d’anima per svelare un modo altro di concepire la famiglia, che non passi necessariamente per il sangue e che non si definisca tramite vincoli di appartenenza; un nuovo modo che abbia più a che fare con la libertà di scelta e con la possibilità di madri di figlie e figli che si scelgono, e che scelgono a loro volta.
Un'idea di famiglia che nasce da una radice diversa rispetto a quella del familismo, e che vede le relazioni famigliari come esperienze e realtà moltiplicative, non esclusive ed escludenti, non sostitutive e singolari.
E così la filiazione d’anima, come nelle famiglie queer, è un’affinità elettiva. Un filo invisibile tessuto d’amore che può legare più della genetica.
Una società moderna, democratica e plurale dovrebbe strutturare rapporti di affidabilità a prescindere dai legami di sangue e considerarsi tanto più evoluta quanto più l’affidabilità si estende a chi è estraneə al gruppo familiare. Le società familiste, fatte di tribù e di clan, applicano invece il concetto di bene e di male solo all’interno delle loro strutture di parentela riconosciute, dove il “noi” della consanguineità è contrapposto a un “loro” senza legami biologici, e definisce la categoria dell’estraneə come qualcuno a cui si può invece fare qualunque cosa.
Alla domanda: «Quando finiranno le mafie?» Roberto Saviano nel 2021 ha risposto che questo avverrà solo quando finiranno le famiglie, cioè «quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ma «nella patria del familismo non esiste bestemmia più grande che quella contro la struttura familiare (…) perché l’unica cosa che in Italia mette d’accordo tutti: la sacralità della famiglia».
Eppure, prima di Saviano, la nostra storia familiare era già stata messa in discussione dai sociologi Edward C. Banfield e Laura Fasano, che nel saggio Le basi morali di una società arretrata studiano la società rurale della Basilicata degli anni Cinquanta per arrivare a formalizzare il noto concetto di familismo amorale, cioè quella tendenza culturale a «massimizzare unicamente i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare», supponendo che l’intera società si comporti analogamente.
Al familismo amorale appartiene la logica del “tengo famiglia”, giustificazione di qualunque reato o compromesso morale, la sola che tutti condivideranno, perché un sistema organizzato per famiglie non riconosce il bene comune, ma soltanto la protezione delle rispettive appartenenze
Questi due concetti, del familismo amorale e dell’allineamento della struttura familiare tradizionale con quella mafiosa hanno quindi come comun denominatore il rifiuto del bene comune in nome di uno più circoscritto alle parentele riconosciute come tali.
Laddove il legame biologico è più forte anche la possibilità di esistere e di affermarsi si fa più complessa, perché in quel sistema è importante e centrale dire di chi sei, piuttosto chi vorresti essere.
Famiglie queer, figli d’anima sono parole che fanno dunque scricchiolare le antiche travi a sostegno della mastodontica trinità Dio, Patria e Famiglia, rivelando le crepe del concetto di normalità e mostrando un’alterità – da sempre esistita, eppur sempre taciuta – che da un lato, mette in crisi quei rapporti di forza e di potere e dall’altro rivela l’urgenza di ridisegnarli.
Quel che dico contro la logica biologica del patriarcato eteronormativo di Stato – che identifica la maternità con la gravidanza e la famiglia col sangue – lo dico da madre d’anima, da membro di una famiglia fatta di legami altri. Le uniche certezze che ho hanno a che fare con la mia esperienza personale e per il resto ho solamente domande
Da questo primo (s)punto Murgia s’interroga e indaga nuove forme di maternità d’anima e di famiglia, introducendo il secondo, delicato, punto: quello della gestazione per altri, formula comunemente abbreviata in gpa.
Un discorso che lega a doppio filo la questione sociale a quella di classe, e che pone al centro la libertà di autodeterminazione della donna «che osa immaginarsi fuori dalla maternità biologica», sostenendo la necessità di una legge che permetta la gestazione per altri a tutela delle parti deboli.
La natura economica del problema viene vigorosamente sottolineata dalla scrittrice, che accusa lo Stato la colpa di non essere in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono alle donne di scegliere di diventare o no madri secondo il solo proprio desiderio: «nessuna dovrebbe essere costretta ad abortire o a partorire perché ha bisogno di soldi».
Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me
A pagina 14, Michela Murgia riporta una frase che ricorda di aver depositato sulla carta agli esordi della sua carriera da scrittrice. E rievocandola nel suo presente di scrittrice ormai matura e affermata, si coglie ancora nel dubbio di non sapere in cosa consista esattamente, definitivamente, la sua vocazione.
Domandarmi, con tutti i mezzi condivisi di cui ho il privilegio di disporre, chi sia una madre e mai di chi sia; non rassegnarmi all’idea di famiglia a cui mi avrebbero destinata la mera biologia e le leggi dello Stato
«...Forse la mia vocazione.»
Pagine precise e puntuali, ironiche e serissime, perentorie e indefinite, capaci di contenere senza limitare un pensiero che rifiuta i confini; uno strumento d’identificazione e insieme di liberazione; un testo nato in poche settimane e che pure si presenta come un testo antico, che viene dal passato e va verso il futuro.
Così come "al futuro" Chiara Valerio suggerisce di coniugare il verbo (di) Michela Murgia: «In italiano abbiamo solo la parola tempo, mentre gli inglesi hanno oltre a "time", "tense" e "wheather" e siccome Michela Murgia se ne andrà prima del tempo, perché non c'è tempo.. e perché come sappiamo tutti, essendo stati bambini, è difficile coniugare i verbi, allora usiamo il tempo atmosferico. Così domani pioverà Michela Murgia, o splenderà Michela Murgia».
Ma è al presente che questo libro ci richiama, regalandoci il coraggio di scegliere ogni giorno, lottare per noi stessi e per gli altri, coltivare il dubbio, far sentire la propria voce. In un mo(n)do o nell'altro.
Nata sotto il segno dei Gemelli, figlia di almeno due madri io stessa, non ho dato alla luce mai nulla e nessuno che non fosse fratto. Se tra le due lingue che parlo meglio una è madre, non è quella in cui vi scrivo, e dunque vi chiedo di portare pazienza. Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, coltivate il dubbio per sognare orizzonti anche più ambiziosi di quelli che riesco a immaginare io. La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino.
Di
| Rizzoli, 2024Di
| Mondadori, 2023Di
| Einaudi, 2022Di
| Einaudi, 2021Di
| Marsilio, 2021Di
| Mondadori, 2020Di
| Salani, 2019Di
| Einaudi, 2018Di
| Einaudi, 2018Di
| Einaudi, 2017Di
| Einaudi, 2016Di
| Einaudi, 2016Di
| Einaudi, 2014Di
| Einaudi, 2014Le recensioni della settimana
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