La ristampa di qualunque libro di Carlo Emilio Gadda – di cui a maggio ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa – è sempre un evento da salutare con commozione, non soltanto per gli studiosi o gli appassionati, ma per il rinverdimento del linguaggio stesso, per la messa in commercio di parole o espressioni desuete, guizzanti contro lo stantio dell’usurato. Se a essere ripubblicato è poi il Giornale di guerra e di prigionia in una nuova veste impreziosita da sei taccuini inediti, il felice esito è garantito.
Per il sottotenente Gadda, che l'aveva auspicata come «necessaria e santa», la Grande Guerra si rivela uno scontro durissimo. La disfatta di Caporetto e la prigionia in Germania peseranno come un macigno sul bilancio della partecipazione di Gadda alla guerra, ma il tempo dimostrerà che l'officina del Giornale - primo sofferto atto di conoscenza del mondo e della propria realtà psichica - segna la nascita del più grande prosatore italiano del Novecento.
Il Giornale è il fischio d’inizio narrativo del giovane «Gaddus», la sua dolorosa Elicona, il segno aurorale dell’investitura di uno scrittore che cita a tutta birra il VI libro dell’Eneide e, in sottofondo, mira alle cronache cesariane. Dal 24 agosto 1915 al 31 dicembre 1919 il sottotenente del 5° reggimento degli alpini – all’epoca poco più che ventenne – tiene infatti un diario spalmato nei territori di Edolo, Ponte di Legno, Vicenza, Cesuna, Campiello, Val d’Assa, Clodig, sino alla provincia di Hannover. Da principio sostenitore quasi péguyano della Grande Guerra, poi ammorbato dall’«egotismo cretino dell’italiano», dalla «vita pantanosa» in caserma e in trincea tra giornate uggiose, irrequietezze e malesseri vari («nevrastenia generale e nevrosi del cuore»), disturbi gastro-intestinali, «l’insufficienza di molte anime porche», il futuro ingegnere prova sulla sua pelle l’abominio del conflitto mondiale, assistendo in prima persona alla disfatta di Caporetto (il «Memoriale» gaddiano è un documento importantissimo per comprenderne i dettagli e i risvolti storici), dove peraltro smarrisce gli appunti di «Torino Carso Clodig» (novembre 1916-ottobre 1917). Il 25 ottobre 1917 ai piedi del monte Krašji, mentre cerca di traversare l’Isonzo con i compagni, è catturato («la fila di soldati sulla strada d’oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi!») e deportato nel campo di concentramento dei prigionieri italiani a Rastatt e a Celle. Sono i giorni terribili in cui Gadda matura la sua concezione dell’esistenza e del reale come caos, ineliminabile isolamento, imperdonabile tragedia, con la stessa urgenza comunicativa del serriano Esame di coscienza di un letterato. Ecco cosa scrive la Vigilia di Natale del ’17:
Dov’è la mamma? Dove sarà a patire e a vegliare? Dove sono i miei fratelli? Dov’è Enrico? E che fa Clara sola e senz’aiuto? Io, che dovevo precederli, sono ora scomparso dal mondo; io che dovevo aiutarli e soccorrerli, scòrgerli avanzando nella terribile vita, imploro dalla lor pietà di fratelli il pane di che sostentarmi, il pane che il mio stomaco insaziato chiede, che il sangue chiede per convogliar vita ai tessuti. [...] La demenza, l’orrore, il male, la povertà, la fame, l’asservimento alle leggi brutali sono oggi il collegio de’ miei compagni; le ore passano nel desiderio atroce del cibo, nella rapida voluttà del deglutire, nell’orrore della fame insaziata, nel freddo dell’inverno nordico, nella solitudine tra la folla».
Pur nel gorgo della disperazione, non manca il salvifico periscopio d’ironia sul mondo. Nell’elenco di «diversi piccoli fatti» del 31 maggio 1918 c’è spazio per notazioni di tenue humor: «Condizioni metereologiche. Le più adatte per finir di rovinarmi. [...] Studio del tedesco e attività intellettuale specifica. Lo studio è saltuario e irrazionale. [...] Latrine. Sono un capolavoro futurista». Nella Baracca 15 presso Celle – la famosa «baracca dei poeti» – Carlo Emilio gioca fragorosamente a scacchi e stringe amicizia con Bonaventura Tecchi e altri sette «facitori di versi», motivo per cui sente di dover ringraziare «Dio con l’anima»: «d’avermi dato soccorso nell’orrore; di non aver voluto aggiungere alla sventura il martirio della “compagnia malvagia e scempia”».
Da pagina 410 cominciano i quaderni inediti del Giornale – di proprietà degli eredi Bonsanti e acquisiti dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma –, la vera sorpresa di questa edizione Adelphi filologicamente ineccepibile. Comprendono il novembre e il dicembre 1918 e abbondano di Note Autobiografiche, d’intenzioni e programmi di Vita notata, pensieri ed espressioni che testimoniano l’ultimo periodo di detenzione con il «cielo plumbeo» che grava e una sommersa attività letteraria in cantiere (il progetto di un romanzo, Retica, la Passeggiata autunnale, le traduzioni da Heine). Secondo Paola Italia, il Giornale, apparso per la prima volta nel ’55, si rivela ora nella sua interezza come «un’opera profonda e potente: pur difforme dai più celebri, e letterariamente atteggiati, diari di Soffici, Stuparich e Comisso, appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra, e basterebbe da solo ad assicurare a Gadda un posto nel nostro Novecento». Difficile non condividere questo giudizio.
Nel cupo gennaio 1919 Carlo Emilio è a Milano e viene a conoscenza della morte dell’amatissimo fratello. «Enrico tu non eri il mio fratello, ma la parte migliore e più cara di me stesso». Non possiamo non leggere nelle maglie della lancinante sofferenza gaddiana l’alto grido che, a ogni latitudine e in ogni tempo, si leva contro lo scandalo della guerra. «Riguardo e penso i ritratti del nostro Enrico adorato, e nella desolazione vorrei avere una fede, la certezza di rivederlo dove che sia».
Scoprite la nostra intervista a Giorgio Pinotti, che abbiamo incontrato per parlare del libro!
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