Ognuno di noi ha un modo diverso di visualizzare le immagini che arrivano al nostro cervello leggendo una storia. Luoghi, personaggi, situazioni che sono inchiostro nero su pagine bianche hanno la capacità di prendere forma e cambiarla a piacimento man mano che la storia si dipana.
Più le immagini diventano vivide e forti e più noi abbiamo non solo voglia ma bisogno di continuare con la lettura che magari abbiamo distrattamente iniziato. Questo è quello che mi è capitato leggendo, o meglio divorando Il duca di Matteo Melchiorre.
Il duca è l'ultimo erede di una dinastia ormai estinta e si è ritirato a vivere nell'antica villa di famiglia a Vallorgana, un paese a ridosso della montagna. È una persona colta e schiva, che ama le ricerche erudite ma non disdegna di passare il tempo facendo piccoli lavori di manutenzione alla villa. Finché un giorno, il caro fidato Nelso Tabiona, boscaiolo e tuttofare, gli porta la notizia che nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Mandatario del furto è Mario Fastréda: un ottantenne forte, dinamico, uno di quelli che ha vissuto quando il mondo era conquistabile, usando qualsiasi mezzo per avere potere sempre comunque in modo subdolo.
Nelso osservò che erano gli anni in cui sembrava che il mondo fosse destinato a migliorare all'infinito. Chi aveva i soldi poteva spenderli ed essere certo, dopodomani, di ritrovarli in tasca maggiorati
Un paese di montagna, un'antica villa con troppe stanze, l'ultimo erede di un casato ormai estinto, lo scontro al calor bianco tra due uomini che non sembrano avere nulla in comune... Quanto siamo fedeli all'idea di noi stessi che abbiamo ricevuto in sorte? Matteo Melchiorre ha costruito una storia tesissima ed epica sulla furia del potere, le leggi della natura e la libertà individuale.
È considerato il capo indiscusso di Vallorgara, come se il paese, non avendo più un nobile a cui offrire i propri servigi e a cui affidarsi in caso di diverbi, avesse trovato in un uomo del popolo un capo. Può essere un piccolo paese o una nazione ma quel che ci sembra di capire è che se si è abituati a stare “sotto padrone”, in mancanza di questo, se ne cercherà sempre un altro, e al pari dei nobili, Mario Fastréda si era circondato di vassalli pronti a fargli scudo contro qualsiasi avversità.
Il duca inizialmente evita lo scontro ma la discordia si fa avanti, la smania di riprendersi i legittimi confini lo cambiano e lo portano in un vortice fatto di leggi, avvocati e nevrosi. La ricerca spasmodica di carte che possano avvalorare le sue ragioni lo portano a conoscere tante storie dette e non dette di un paese che è un piccolo universo di persone, di racconti collettivi che sono la cultura popolare del posto. Ma il duca è comunque persona buona e schiva che in Nelso cerca non solo un aiuto fisico per le sue faccende ma un amico, un confidente, una autorevole voce che gli indichi di volta in volta la cosa giusta da fare, anche se poi non lo sta sempre ad ascoltare. In Nelso le ragioni della montagna, si fanno forti e tangibili. Una montagna che non è mai un luogo idilliaco dove fare le nostre belle passeggiate domenicali, un luogo dove la vita di tutti i giorni può essere dura e i rapporti tra le persone non sempre facili.
“Maledetto avvocato, soprattutto: uomo di carta e di parole, uomo evidentemente ignorantissimo in fatto di boschi... come se non ci fosse invece una logica faticosa e intelligente nel taglio di un bosco: individuare le parabole di caduta in modo tale che pianta non cada su pianta, studiare passaggi per il prelievo dei tronchi, concepire spazi adeguati per le cataste”
Nelle 450 pagine di questo epico e monumentale romanzo ho spalmato le immagini nella mia mente sfruttando i ricordi dei monti vicino dove sono nata, da queste immagini si è sviluppato un film: dal taglio del foraggio di Nelso (segàr, slargàr, oltàr, far rèla e infine cargàr) alla raccolta dei porcini in montagna, dove chi è più bravo conosce e difende le proprie zòche, alle cappelle di san Rocco o ai capitelli di San Martino. Un mondo, quello della montagna, o come per me, della Pedemontana, dove la cultura popolare, anche se non più forte come una volta, è comunque ancora viva e collettiva.
Un libro che sa scavare nel presente come nel passato capace di rendere universali quelle che possono sembrare piccole o grandi storie di paese.
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