Ventisei anni, un appartamento (ovviamente non di sua proprietà) in una Milano che sembra “uscita dal rendering di un progetto di architettura”, un lavoro in uno squallido bar popolato da divorziati che amano allungare le mani e un fidanzato tanto debole e apatico da non avere neanche la voglia di tradirti.
Se Maia, la protagonista de Il profilo dell’altra, dovesse essere condensata in una singola frase – una di quelle che nei licei americani viene stampata sotto la propria foto nell’annuario scolastico – probabilmente sarebbe la citazione di Paul Nizan che recita: “Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.
Dopo la morte della sorella, Maia ha interrotto gli studi a Parigi e si è trasferita con il suo compagno a Milano, mentre Gloria è un'influencer e a soli diciotto anni ha tutto quello che si può sognare. È quando Maia inizia a lavorare per Gloria che le loro vite cambiano per sempre.
La sua esistenza si trascina indolente, le giornate indistinguibili l’una dall’altra come caramelle gommose dai colori diversi ma caratterizzate dallo stesso retrogusto dolciastro, fino all’incontro con Gloria, che a prima vista sembra il suo opposto: un’invidiata influencer teenager da milioni di follower cosa potrebbe mai volere da una come Maia, cinica e scontrosa?
“Tu le devi fornire una personalità. È molto semplice. Lei funziona così, è un contenitore vuoto”
Il debutto letterario di Irene Graziosi parte quindi da uno spunto narrativo vecchio come il mondo, ma al classico incontro/scontro fra due universi del tutto opposti l’autrice è in grado di regalare un taglio del tutto personale, raccontando la storia di un’amicizia che finisce per smussare gli spigoli sbeccati della personalità delle due protagoniste.
Perché Il profilo dell’altra è innanzitutto, per diretta ammissione dell’autrice, una storia di amicizia.
“La storia racconta l’incontro tra due ragazze (le ragazze sono la mia cosa preferita) che, attraverso lo sguardo dell’una sull’altra, cercheranno di capire chi sono liberandosi da ciò che hanno sempre creduto di dover essere” racconta Irene Graziosi. E da lettori con il pallino per la punteggiatura non si può che essere affascinati dal modo in cui l’autrice sceglie di inserire quell’appunto fra parentesi – (le ragazze sono la mia cosa preferita) – quasi sia una sorta di giustificazione a latere che spieghi come mai il romanzo è così character-driven.
La trama del libro infatti segue il dipanarsi della relazione fra Maia e Gloria, fra Maia e il fidanzato e fra Maia e il fantasma della sorella morta e mai amata davvero. Che si tratti di amicizie, amori tiepidi o rivalità, il romanzo sembra ricordarci che sono solo i rapporti con gli altri a definirci come individui.
Nel salone attraversato dalla lama di luce dentro cui danzano i pulviscoli come ballerini illuminati da un riflettore, mi chiedo se io esista realmente, o più in generale, se magari si esiste solo se c'è qualcuno che ci vede
Le relazioni descritte nel romanzo sono improntate alla legge cara a Hobbes per cui homo homini lupus, ovvero ognuno pensa a sé stesso e poi, forse, in un secondo momento, agli altri. Il buonismo e il politically correct sono solo performance adatte solo ai social, perché nella vita reale il nostro primo istinto è quello a un sano opportunismo. Vale per Gloria – che appena vede la rivale in amore non esita nella sua testa a definirla una poco di buono ma è consapevole che secondo la teoria femminista non è autorizzata a chiamarla così – e vale soprattutto per Maia, il cui egoismo sprezzante ma genuino emerge dal do ut des che instaura con uno dei clienti del bar in cui lavora, l’unico avventore con il quale desideri avere un qualche tipo di rapporto. L’uomo le vende l’erba – unico sollievo a base di tetracannabidiolo in grado di risollevare la sua esistenza altrimenti monotona – e Maia ricambia con degli scatti hot. La freddezza della transazione non testimonia tanto il valore (nullo) che la ragazza riconosce al suo corpo, bensì è l’ennesimo indice della superiorità di cui Maia si fa scudo.
Mi scrive quando è in ufficio e mi chiede se gli posso mandare una foto. Io allora apro la cartella di foto che mi sono scattata nel corso degli anni e ne scelgo ogni volta una diversa, per fargli credere che me la sia scattata proprio in quel momento, solo per lui. Ai maschi piace pensare di essere speciali
Quello di Irene Graziosi è un romanzo di formazione amaro e cinico quanto la sua protagonista, capace di tratteggiare senza sconti tutte le ipocrisie, le gioie e i dolori di una generazione spaesata con lo stesso stile tagliente che ha reso celebri scrittrici come Naoise Dolan (Tempi eccitanti), Marion Messina (Falsa partenza) e soprattutto Sally Rooney (Parlarne fra amici, Dove sei mondo bello).
Ad accomunare i romanzi appartenenti a questo nuovo filone narrativo è la tendenza a focalizzarsi sull’introspezione dei personaggi anche quando l’effetto finale non è del tutto piacevole, come del resto accade quando ci si mette a zoomare così tanto su un’immagine da finire per intravederne i pixel. I difetti sono ingigantiti, le personalità più spigolose emergono per quello che sono e il mosaico di pose e bugie che mostriamo agli altri si svela per quello che è.
In ogni caso, per come la vedo io i social mostrano ancora più vividamente della realtà come sono fatte le persone. Sui social le persone si mostrano per come vorrebbero essere viste dagli altri. Ciò che emerge non è ciò che si è, ma ciò che si desidererebbe essere
Come era prevedibile supporre, Irene Graziosi – content creator e anima del progetto Venti fondato con Sofia Viscardi – nel corso del romanzo propone una riflessione sul mondo del social e dell’immagine, ma non aspettatevi la solita retorica trita e ritrita sulla pericolosità di Internet e sulla falsità degli influencer.
L’analisi fatta dall’autrice è molto più acuta e disincantata di così, tanto che Il profilo dell’altra non esita nel tirare qualche frecciatina all'attivismo performativo tipico dei social:
Tranne i maschi eterosessuali, che sono liberi di essere ciò che desiderano, tutti gli altri sembrano costretti alla sensibilità nei confronti di qualunque causa. Si dichiarano empatici e, in nome di questa empatia, indignati per tutto ciò che viola le loro aspettative morali. È possibile che nello stesso giorno io veda una persona postare quattro o cinque immagini diverse che racchiudono l'impegno nei confronti di altrettante cause. Contro l'apicoltura che sfrutta le api, contro la plastica, contro la transfobia, contro la grassofobia, contro il fast-fashion
Nella contemporaneità dei social devi dimostrare che ti importa di qualcosa, altrimenti sei tacciato di superficialità e arroganza; sei costretto a esporti anche su questioni sulle quali non sai assolutamente nulla per mostrare di “utilizzare la tua piattaforma per una causa più grande”, ma non devi mai dimenticare che ogni tuo scivolone verrà immortalato da screenshot e una marea di messaggi rabbiosi da parte di follower indignati dalla tua scelta di acquistare un capo fast-fashion o delle fragole in una vaschetta di plastica.
L’attenzione verso cause come i cambiamenti climatici, il femminismo, i diritti della comunità LGBT+ e l’etica del duro lavoro sono tutte performance da mettere in atto, ma ancora più importante è restare umili, anche se solo in apparenza. Se Gloria è tanto ricca da poter fare spallucce di fronte a cifre da capogiro, a parole ama rivendicare lo status di “povera ad honorem” ripetendo all’infinito che viene da una famiglia ebrea e priva di mezzi: “L'ossessione per la povertà di sua nonna, avrei scoperto in seguito, ha un'origine interessante: deriva dal terrore di essere additata come privilegiata sui social, dove negli ultimi anni sta prendendo piede la tendenza a effettuare complicati calcoli per capire chi sia il più ontologicamente sfortunato, e quindi il più degno di attenzioni, follower e soldi”.
Catapultata suo malgrado in questo mondo di ipocrisie e filtri instagram, Maia diventa quindi una moderna Nick Carraway, contemporaneamente dentro e fuori, incantata e respinta dall'inesauribile varietà della vita mostrata sui social, narratrice non del tutto attendibile della ragnatela dorata e crudele che è la Rete.
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