Ad «alcune esperienze di incontro tra cinema e poesia nel secondo Novecento» è dedicato l’interessante saggio di Riccardo Donati, Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici (Quodlibet), concentrato su tre imprescindibili «emozioni mediali»: il vampiro di Carl Theodor Dreyer, la diva Marilyn Monroe, il clown Charlot: acutissimi mitologemi della società contemporanea.
Nel secondo Novecento il cinema ha acceso l'immaginario dei poeti. Tre emozioni mediali, tre icone si sono più di altre impresse nella loro coscienza e nei loro versi: il vampiro di Dreyer, la diva Marilyn, il clown Charlot. Saba, Govoni, Pasolini, Sanguineti, Zanzotto, Gatto, Luzi, Magrelli: tutti scrittori che hanno fatto un uso poetico delle emozioni mediali.
Il rapporto tra poesia e cinema è molto più fecondo di quello che può sembrare; la cinepresa nasconde, infatti, «una prodigiosa macchina di ossessioni, proiettive e identificative, personali e comunitarie, trans-storiche ed epocali, una fabbrica di stereotipi che si rivelano archetipi operanti, puri precipitati di un sentire insieme arcaico e modernissimo». Basti pensare che in Il sogno del prigioniero di Eugenio Montale – la poesia che chiude verticalmente La bufera e altro – Niccolò Scaffai (Il lavoro del poeta, Carocci 2015) aveva ravvisato una forte tangenza con Sogno di prigioniero diretto da Henry Hathaway nel 1935 e distribuito in Italia da Paramount l’anno successivo. Nel caso del libro di Donati (propiziato dall’augusto patronato di Edgar Morin), si parte da Vampyr, l’étrange aventure de David Gray di Dreyder (1931) che riesce ad agire reminescenzialmente in Vocativo (1957) di Andrea Zanzotto, poeta riconosciuto come ctonio e geologo. Particolarmente, in Impossibilità della parola l’autore solighese cita la sequenza delle esequie di Allan, portando alla luce – per tramite della suggestione cinematografica – il «trauma di un lutto mai elaborato», cioè la morte della sorella Angela a soli quattordici anni, nel 1937.
La Monroe, recentemente rievocata nell’affilata e contaminante pièce di Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (2019), è fonte di «una sterminata produzione letteraria» che la pone nell’intersezione tra «mitologia divistica, discorso amoroso e ossessione luttuosa». Paradigmatici sono gli esempi di Mario Luzi e Pier Paolo Pasolini. Il primo, nella sequenza Graffito dell’eterna zarina (Al fuoco della controversia, 1978), mette in scena «la pur adulata dai notabili, / la pur onnipresente rossa girl» per rilevarne la «solitudine immedicabile» e agire poeticamente con la pietas dimenticata da un mondo rapace. Il secondo, nella Sequenza di Marilyn – presente nel poema foto-cinematografico La rabbia (1963) –, «intende impartire per via lirica [...] una lezione sulla vera natura del capitalismo» che sfrutta il corpo della Monroe per poi espellerlo e spazzarlo via dall’«avida furia della società dei consumi». Anche Valerio Magrelli, in Quattro distici e un kit di rime da assemblare, celebra – secondo Donati – in una «dimensione puramente ludico-combinatoria» la mitologia «frusta e non più creduta, corrosa dall’acido di chiacchiere e paranoie risapute».
Last but not least, Charlie Chaplin è stato spesse volte incastonato nei versi dei poeti italiani novecenteschi. Si ricordi il poema Charlot nella Febbre dell’oro di Umberto Saba (1927) o lo Charlot di Corrado Govoni (1953) o Il motivo di Charlot di Pasolini (1953) o, ancora, la Ballata per Charlot di Alfonso Gatto (1963) e lo Sarlòt e Jijeto di Zanzotto (1986). Qual è il motivo di tutti questi omaggi? La risposta di Donati, che ricapitola nell’insieme le figure filmiche del libro, è chiara e condivisibile: segno di un uomo solo e puro, strana imitatio Christi, irresistibile schlemihl ed emblema di arguta «eccedenza», Chaplin ha rappresentato l’«icona venerabile» del «ritorno a una condizione primigenia (libera, sognante)». La tensione, insomma, della poesia stessa.
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