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L'impostore di Zadie Smith

Immagino che forse sia possibile, signor Kenealy, che lui possa non sapere di essere Arthur Orton. Voglio dire: potrebbe essersi scordato la sua identità... È già capitato, nella storia del mondo, che un uomo non conosca più se stesso!

Il tema è quello dell’identità. Segreta, omessa, distorta e manipolata. E Zadie Smith, nel suo nuovo romanzo L'impostore edito da Mondadori, sembra voler giocare con l’identità già a partire dal genere stesso del suo romanzo. Sì, perché quello che si presenta a tutti gli effetti come un romanzo storico, nasconde in realtà qualcos’altro, andando a creare una stratigrafia che ne rende difficile qualsiasi tipo di catalogazione. Un pastiche di metaletteratura, denuncia sociale e interventi farseschi, fluidificato dalla prosa esemplare di Zadie Smith, regina nel coadiuvare scorrevolezza e profondità.

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Ma chi è allora l’impostore?

Partiamo dal primo, il più sfacciato: Roger Tichborne. A far da sfondo troviamo infatti uno dei casi legali più famosi e lunghi nella storia dell’Inghilterra. Baronetto inglese cresciuto a Parigi con la madre, Roger Tichborne naufraga ventiquattrenne a seguito di un viaggio in nave verso New York. Anni dopo un macellaio australiano, Arthur Orton, rivendicherà di essere proprio il baronetto scomparso. È ingrassato, non conosce il francese, ed è piuttosto rozzo. Eppure, la gente, istintivamente gli crede.

Il caso Tichborne è diventato negli anni simbolo della scalata sociale tentata da un working class hero con il desiderio di abbandonare un’esistenza piatta e misera in favore del successo. La contraddizione, neanche troppo velata, sta nel fatto che il popolo, se da una parte si identifica con il povero lavoratore, paladino dei diritti inascoltati dei più deboli, dall’altra crede nella sua rivendicazione, di fatto delegittimando e innalzando le sue umili origini. Un processo che a fine ‘800 tenne con il fiato sospeso giornalisti e edicolanti, uomini e donne in tutta l’Inghilterra, fino al suo sfortunato epilogo.

Tra loro c’è anche Eliza Touchet, protagonista del romanzo di Smith. Diventata vedova prematuramente, Eliza si reinventa come domestica del romanziere vittoriano William Ainsworth, suo cugino acquisito, con cui si impelagherà in una storia adulterina, crepando la facciata integerrima di zitella del villaggio. Un’attrazione puramente fisica compensata dall’amore candido e platonico che invece sembra provare per la moglie di lui, Frances.
Ironica, tagliente e intelligente, Eliza è una narratrice irresistibile, alter ego suggerito della sua stessa creatrice. La donna tuttavia si potrebbe arruolare anche lei al club dell’impostura. Dopo aver passato anni a sbeffeggiare le velleità letterarie di William, si scopre infatti attratta dalla scrittura. E così trascriverà in incognito i giorni salienti del processo Tichborne, fino a conoscerne i più intimi dettagli grazie alla testimonianza chiave di Andrew Bogle, servo della famiglia, precedentemente schiavo in una piantagione jamaicana.

E qui si apre un’ulteriore impostura, quella che l’autrice sembra avere, per ovvie ragioni date le sue origini, più cara. Il rapporto tra Inghilterra e Jamaica, «due facce dello stesso problema, profondamente collegate.» Un’Inghilterra ipocrita e perbenista che discute dell’abolizione della schiavitù jamaicana tra bicchieri di Porto e discorsi vacui sulla bellezza. Salotti sfarzosi popolati per lo più da scrittori, tra cui incontriamo Dickens e Thackeray in persona che, correndo dietro al mantra dello «scrivo solo quello che conosco», sembrano interessarsi solo ciò che gli viene sbattuto in faccia. A ciò che sta loro a cuore.

È di queste stoffe dismesse e verità rubate che sono fatti i romanzi. L’intera faccenda la stancava sempre di più, fino al disgusto

Medea

Ma è la letteratura a vincere lo scettro dell’impostura. E in questo Smith appare quasi disincantata. Quasi, perché se da una parte ne denuncia la svilente arte dell’omissione, dall’altra sembra darle un’ennesima possibilità. Sarà Eliza infatti a trascrivere la storia brutale di Bogle, esponendone le parti più stridenti e le immagini strazianti; perché l’isola esotica e bellissima che sentiva tanto distante, improvvisamente non è più un mondo completamente diverso o inimmaginabile.

E non ci è voluto il fischio di un treno o un naso pendente per scoprire tutte le rabbie del mondo. Bastava solo che qualcuno si prendesse la briga di raccontargliele.

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