Quando l’aveva notata, nella prima lezione, le aveva fatto pensare a un’antica mappa che segnava il percorso di vecchie lacrime
I protagonisti di questa storia non hanno un nome.
Lei non sa più parlare.
Lui sta perdendo la vista.
Le parole a lei rimangono bloccate in gola, un bolo ingombrante sospeso nella trachea. Le immagini per lui acquisiscono contorni solo nella mente, nonostante il mondo illusorio sembra appartenere più all’oscurità che alla luce. Entrambi sono caratterizzati da una mancanza, che poi oltre a essere un impedimento fisico, si traduce in una perdita morale, sentimentale.
Un buco nel cuore.
In una Seoul rovente e febbrile, una donna vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi. Si aggrappa alla radicale estraneità del greco di Platone nella speranza di riappropriarsi della sua voce.
Quello di lei tormentato dalla perdita di un figlio affidato improvvisamente al marito da cui si è separata. Quello di lui rassegnato al ricordo di un amore che non può più avere e, col tempo, neanche vedere. Entrambi però, inconsapevoli, involontari, sembrano cercare il conforto nelle mancanze taciute dell’altro.
Lei si rifugia nelle lezioni di greco antico tenute da lui, perché il pensiero di una lingua morta che nessuno usa più riesce in qualche modo a consolarla. Lui invece misura i giorni con la lentezza di lei, perdendosi nella macchia nera indistinta dei suoi vestiti in cui vorrebbe confondersi.
Due vite che si intersecano, che anelano al calore soltanto accennato dell'altro. Entrambe a confronto con l’immobilità scaturita dalla perdita.
Una dinamica che mi ha riportato alla mente Lezioni di piano, film di Jane Campion del 1993, dove Ada, muta dall'età di sei anni, conosce un unico veicolo di comunicazione, le note del suo pianoforte. Sarà costretta a insegnare la musica a Baines, individuo rozzo e solitario che si riconosce soltanto nella cultura e nella lingua māori. Il risultato è una relazione che sembra costruirsi sull’incomunicabilità, fatta di immagini incompiute, in perenne e teso contrasto tra suono e silenzio, luce e oscurità.
Han Kang, con L’ora di greco (Adelphi) riesce nella stessa impresa. Ci offre un romanzo fatto di impressioni frammentate. Diapositive controluce, e quindi apparentemente stonate, che si rivelano però nei contorni. Anche se sfocati.
Al centro troviamo il linguaggio che inaspettatamente fortifica la sua componente di verità proprio nel momento in cui il suono scompare.
Il professore di greco vive sospeso tra due lingue; il coreano con cui ha imparato a parlare e il tedesco che l’ha accolto da emigrante. Un limbo di equilibrio precario, distratto dal dolore dei ricordi e dalla paura per un futuro già compromesso.
La studentessa di greco invece il linguaggio non lo utilizza più. Vive posseduta dal silenzio, assediata anima e corpo, avvolta da un’ovatta spessa e alienante. Del resto, dalle parole si è sempre sentita tradita, torturata come da spilli che le trafiggevano il corpo. Nell’attimo stesso in cui stava per pronunciarne una, la percepiva già come sbagliata. Ma se il linguaggio non è altro che la trasposizione di quello che osserviamo, sentiamo, soppesiamo, non è forse previsto un margine d’errore? La traduzione in parole non prevede anche una componente di tradimento?
Per strada sembra sempre, inevitabilmente, perdersi qualcosa.
Han Kang, che le parole le usa magistralmente, ci mette in guardia. E lo fa partendo dalla struttura stessa del suo romanzo, immune a qualsivoglia horror vacui, costruendo un testo che si assottiglia pagina dopo pagina, fino a ridursi a frasi spezzettate, accennate, essenziali.
Il collasso del linguaggio incarna il senso di smarrimento dei personaggi messi a confronto con il dolore di una perdita. Un cedimento che porta entrambi ad abbracciare il silenzio, meritevole se non altro di potenziare il rigoglio dello scorrere del tempo. Ed è proprio il quel momento, spogli e privi di qualsiasi sovrastruttura, che riescono nell’impresa più difficile.
Accettarsi.
Accettare sé stessi, e accettare l’altro.
Sembrava che a baciarmi fosse il tempo
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