Si potrebbe pensare che quattro anni di guerra e quasi sette al campo avessero messo la mia integrità a dura prova. Stiratore a tempo determinato (o almeno allora così sembrava), carnefice a sangue freddo (ma anche tumescente), intendevo, le rare volte in cui mi capitava di pensarci, tornare a essere la persona gentile che ero nel 1941. Ora mi viene da piangere alla sola idea che lo ritenessi possibile
La casa degli incontri di Martin Amis ci porta a Norlag, 69° parallelo.
Oggi ci vanno i turisti, in un percorso degli orrori passati, a visitare i Gulag. Anche il protagonista ultraottentenne, che è la voce narrante, sta compiendo quel giro, soltanto che per lui è un tornare sulle tracce della sua vita: era stato spedito lassù subito dopo la fine della guerra, il fratello Lev era arrivato due anni dopo, nel 1948.
Lev era il suo fratellastro, aveva appena diciannove anni.
Il protagonista di questa bruciante confessione non può proprio definirsi un eroe: è un uomo istintivo e violento. Ormai è vecchio e l'antica autoindulgenza ha lasciato il posto al rimorso e all'amarezza: decide intraprendere un ultimo disperato viaggio attraverso la Siberia. A Norlag è rinchiuso anche il fratellastro del narratore, Lev. A dividerli non sono solo le inclinazioni ma anche l'amore di Zoya, una giovane ragazza ebrea, bellissima e sensuale
Era stato arrestato e condannato ai lavori forzati perché lo avevano sentito dire che ammirava le Americhe.
Solo gli amici intimi, il fratello compreso, potevano capire che in realtà Lev non si riferiva a nessuna democrazia occidentale, ma a Zoya, la ragazza sensuale che aveva un corpo che faceva pensare al continente americano, con il restringimento del canale di Panama alla linea della vita.
E con questo dettaglio, paradossalmente ironico, si spalanca l’universo dei Gulag e delle condanne staliniane che seguivano una logica solo in apparenza assurda: come ottenere altrimenti una mano d’opera per i giacimenti in quella zona inospitale?
Un luogo e una data al centro del lungo racconto sotto forma di lettera scritta dal protagonista alla figliastra Venus: lo chalet a due piani chiamato la casa degli incontri e il 31 luglio 1956.
L’unica stanza con una brandina stretta dove gli uomini del campo potevano incontrare le mogli (dopo richieste, permessi agognati e attesi per anni, donne che viaggiavano per settimane per stare insieme al loro uomo una manciata di ore) e la notte in cui suo fratello Lev aveva incontrato - dopo otto anni - la moglie, che era poi la ragazza amata da entrambi i fratelli. Quando Lev era uscito dalla ‘casa degli incontri’, era un uomo diverso: che cosa era successo o non era successo là dentro? La risposta la troveremo solo alla fine, ed è questo un validissimo pretesto perché il narratore ci racconti una storia di gutturali e sibilanti che non è solo quella di due fratelli ma di tutta la Russia.
Il fatto stesso che due fratelli così diversi per età e per inclinazioni si ritrovino internati nello stesso Gulag è di per sé significativo - il narratore, che non nasconde di essere un uomo cinico che ha marciato con un esercito di stupratori nella Germania agonizzante alla fine della guerra, e il mite dostojevskiano Lev, poeta, pacifista convinto.
E se Lev sopravvive all’inferno siberiano, allo spietato sistema del campo che divide gli internati in classi stratificate - dai porci che sono i vigilanti, agli urka, e poi le serpi, le sanguisughe, i fascisti, le cavallette, fino ai mangiamerda, i casi disperati, i morti di fame che si azzuffano per spartirsi escrementi e rifiuti - è perché vuole rivedere Zoya, certo, ma soprattutto perché il fratello si erge a suo angelo custode.
Anche se vorrebbe essere al suo posto, anche se poi riuscirà ad infilarsi nel letto di Zoya.
Ma questo avviene più tardi, quando vengono rilasciati e lui è il vincente che si arricchisce con il traffico d’armi mentre Lev si abbrutisce nell’alcol.
Mi hanno preso tutto
Dice questo Lev prossimo alla morte.
Perché la Russia gli ha tolto anche il figlio - un incidente a cui si è sovrapposto un tremendo errore, durante la guerra in Afghanistan, nel 1982. Ma la Russia è una madre-matrigna, come osserviamo nella carrellata storica dell’anziano protagonista che ha abbandonato la sua patria per emigrare negli Stati Uniti e ora, nel 2004, segue alla tv l’occupazione della scuola nell’Ossezia del Nord e ricorda l’impiego di gas tossici nel teatro moscovita nel 2002:
La disperazione perenne è la cifra della vita nazionale, nessun Dio russo piangerà, nessuno ha mai chiesto scusa per nessun oltraggio perpetrato
Questo a differenza dei tedeschi, gli altri grandi carnefici del secolo XIX - ed è con una certa soddisfazione che lo nota il narratore dietro cui c'è lo stesso Amis che è sempre stato molto critico nei confronti dell'Unione Sovietica.
Quando terminiamo la lettura, ci restano in mente le parole tatuate sul braccio dell’uomo del Gulag: vivere forse amare mai.
Qualunque amore è destinato ad una raggelante delusione, anche quello per un ideale.
E quanto a vivere - è vicino alla morte il narratore e la Russia sta morendo.
E io ne sono contento. Lo è anche Martin Amis?
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