Cult!

Oblomov di Ivan Goncarov

C’è un romanzo che mi segue da quando l’ho letto, è tutta la vita che mi sta appresso. E lo fa in una maniera molto strana, come mi guardasse da vicino e poi improvvisamente da lontano.

Alberto Rollo

Quando abbiamo intervistato Alberto Rollo, scrittore a noi molto caro, venuto a presentarci il suo nuovo libro Il grande cielo, siamo stati contenti di scoprire che il suo libro cult è un classico della letteratura russa ottocentesca: Oblomov di Ivan Gončarov. Perché contenti? Prima di tutto, perché non ne abbiamo ancora scritto e ci dà la possibilità di farlo. In secondo luogo, perché in un momento in cui di Russia se ne parla solo in modo negativo, e per ovvie ragioni, è importante non vengano innalzate barriere verso la cultura di un paese che ha tanto da dirci.

Oblomov
Oblomov Di Ivan Goncarov;

In un linguaggio che nulla ha da invidiare alla perfezione di Puskin o al feroce realismo di Gogol', Goncarov dà forma a un universo apparentemente immobile ma in realtà freneticamente vivo di osservazioni, pensieri e annotazioni, sostanziando uno dei massimi capolavori della letteratura russa.

 

Il romanzo viene scritto da Gorcarov nel 1859, in un periodo in cui la Russia viveva le contraddizioni e l’infelice convivenza del capitalismo e del processo di industrializzazione da una parte con le tradizioni del mondo aristocratico dall’altra.

Questo spaccato storico si riflette nella storia di Oblomov, il singolare protagonista di questa storia. Oblomov è un signorotto di campagna trasferitosi a San Pietroburgo dove si mantiene grazie alle rendite provenienti dai suoi possedimenti, che però stanno progressivamente calando a causa di una cattiva amministrazione. Egli conduce un'esistenza all'insegna dell'indolenza e di un esasperante immobilismo che in qualche modo richiamano quelli della Russia zarista, che procede lenta verso il Novecento rimanendo refrattaria ai cambiamenti in atto nel resto dell’Europa. Lo descrive così Gorcarov:

"Non v’era segno di un’idea ben definita, né di una qualunque forma di concentrazione mentale. Il pensiero gli passava sul volto come un libero uccello dell’aria, svolazzava negli occhi, si posava sulle labbra socchiuse, si nascondeva tra le rughe della fronte, per sparire poi completamente, e allora su quel volto splendeva soltanto la tranquilla luce dell’indolenza. Dal volto, l’indolenza si comunicava all’atteggiamento di tutta la persona, e persino alle pieghe della vestaglia."

Oblomov passa le sue giornate senza fare nulla, in uno stallo esistenziale apparentemente senza via d’uscita. Resta dalla mattina alla sera sdraiato mollemente sul divano, in vestaglia, circondato da un ambiente polveroso e in abbandono che un vecchio domestico cerca di curare come meglio può. Ogni tanto riceve la visita del vecchio amico d’infanzia Stoltz, un giovane di origini tedesche che ha fatto fortuna e che tenta di spronarlo ad una vita più attiva. Stoltz rappresenta il dinamismo del mondo moderno e ha un atteggiamento pratico verso la vita che contrasta nettamente con quello di Oblomov, di tipo contemplativo e sognatore.

Infatti Oblomov non è interessato alla vita che conduce l’amico all’interno della società di San Pietroburgo. Quella girandola di attività in cui vede coinvolti gli altri lo disgusta, non riesce a trovarne uno scopo e non se ne lascia coinvolgere. Anche l’amore gli è precluso, come se sopportare l'intensità dei sentimenti fosse troppo per lui: lo incontra, ma lo lascia passare, così come fa con ogni altra cosa della sua vita.

Oblomov è la personificazione dell’inerzia e dell’indolenza al punto che dal suo nome è stata coniata la parola oblomovismo, che pronuncia Stoltz alla fine del romanzo quando gli viene chiesta la causa della morte dell’amico: “La causa...quale causa! L'oblomovismo!”. Con questo termine si è preso ad indicare quel misto di apatia e inerzia che sfocia nella procrastinazione e nell’inattività. E, in particolare, il lassismo esasperato e il fatalismo in cui ristagnava la società russa a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Eppure, Oblomov riesce a coinvolgerci moltissimo e risulta una figura complessa e sfaccettata, che resta con noi molto dopo la fine del romanzo. Perché all'immobilità esteriore che sembra essere la sua sola caratteristica corrisponde un moto interiore incessante, uno spirito riflessivo alla ricerca di risposte alle domande morali che si pone costantemente. Uno spirito vitale e critico, pronto ad esprimere giudizi spesso taglienti sulla società che lo circonda, scandagliata in modo molto efficace dal punto di vista di un outsider per scelta.

Quanta complessità, dunque, in un personaggio così immobile: emblema di un'aristocrazia lassista, che sembra incurante dei cambiamenti in atto e cristallizzata nel passato, ma, allo stesso tempo, alla costante ricerca di un significato che non vede nel mondo che ha intorno e dal quale, per questo, rifugge. Non è forse una sensazione che proviamo anche noi, a volte? Quella strisciante paura di non essere a nostro agio nella società in cui viviamo, quando certi imperativi morali sembrano venire meno e non sappiamo come agire? Quel desiderio, che contrastiamo a fatica, di sprofondare nel divano e restare lì mentre il resto del mondo continua a correre? E quello sguardo rivolto ad un passato rimpianto e idealizzato, spesso legato a momenti della nostra infanzia? 

A distanza di oltre centocinquant'anni Oblomov ci parla in un linguaggio che riusciamo a comprendere molto bene, in lui possiamo riconoscerci, anche senza cedere del tutto al suo oblomovismo.

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Conosci l'autore

Ivan Goncarov è stato uno scrittore russo. Figlio di un facoltoso mercante, dopo l’università entrò nella burocrazia statale, dapprima come funzionario ministeriale, poi come censore. Conservatore moderato, scapolo irriducibile, condusse un’esistenza tranquilla, monotona, interrotta solo una volta da un «eroico» viaggio per mare in Estremo Oriente, descritto poi in La fregata Pallada (1855-57). Goncarov aveva già favorevolmente impressionato la critica realista con Una storia comune (1847), romanzo a tesi sulle delusioni e la finale sconfitta di un giovane idealista di provincia, quando nel 1859 un nuovo romanzo, Oblomov (cui seguì, dieci anni dopo, Il burrone), lo fece entrare a pieno diritto nel ristretto numero dei classici nazionali. Tipico di una certa inclinazione del romanzo russo (evidente, per es., in Turgenev) a svincolarsi dall’interesse specificamente narrativo, Oblomov è la storia di un nonfatto, di un’immobilità fisica e mentale che i ritmi lenti, ossessivi del racconto rendono con morbosa sottigliezza. Il personaggio di Oblomov, incatenato all’inazione da una sorta di paralisi spirituale, è l’emblema di un aspetto tragico e affascinante dello spirito russo: quella riluttanza ad accettare i «tempi» della realtà che ha remote radici nel fatalismo orientale, nell’esaltazione asiatica del primato della contemplazione sull’azione. Si spiega così il successo del termine oblomovismo, che, usato per la prima volta dal critico Dobroljubov, entrò subito nell’uso comune. Ma Oblomov (all’assoluto immobilismo del quale è contrapposto, nel romanzo, l’attivismo di Stolz, eroe tanto «positivo» quanto, nella sua schematicità, espressivamente mancato) è anche un tipico esponente della piccola nobiltà russa, e molti critici radicali del tempo poterono leggere il romanzo in chiave strettamente realistica, come un atto di accusa sociale. Il nome di Goncarov è legato, oggi, unicamente a Oblomov. Gli altri due romanzi, tolte le deliziose immagini di vita patriarcale di Il burrone, sono di livello incomparabilmente inferiore. Considerato come una delle opere più significative e perfette della narrativa russa ottocentesca, Oblomov non ebbe, nonostante il suo immenso successo, influssi diretti sui successivi sviluppi letterari, non indicò precise linee di gusto e di rinnovamento stilistico. La sua irripetibilità, la sua non esemplarità si spiegano, così come la sua straordinaria e inflessibile suggestione, col fatto che Goncarov riuscì a fissare una congerie di elementi preesistenti, o addirittura di detriti trovati nella tradizione e nella «moda» contemporanea, in un organismo quasi miracolosamente compiuto e dotato di un’infinita irradiazione simbolica.

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