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La fobia dei numeri di Ljudmyla Djadcenko

Nella poesia di Liudmyla Djadčenko emerge, già a un primo sguardo, quella «densità» semantica che George Steiner cercava animosamente nelle opere letterarie autentiche: in La fobia dei numeri – la prima antologia italiana della poetessa ucraina, che raccoglie testi editi tra il 2014 e 2015, nonché liriche inedite degli anni 2019-2021 –, oltre l’«aroma» dello «zodiaco» o le «terre nel letto d’oriente» o gli «echi dei mugham» o, ancora, i «fotoni di ritratti» crescono riferimenti alla scienza, alla meccanica quantistica e al mondo spirituale, alle Scritture, ai padri della Chiesa, al cristianesimo in generale; ma sono presenti anche «accenni all’ebraismo, all’islam, al buddhismo e al paganesimo precristiano», come la stessa Djadčenko fa notare nella lecture (acclusa alla raccolta), dal titolo La poesia dovrebbe iniziare il giorno in cui si nasce e non finire il giorno in cui si muore.

La fobia dei numeri. Testo ucraino a fronte. Ediz. multilingue

Ljudmyla Djadčenko (1988), una delle poetesse ucraine più apprezzate e tradotte, è laureata in filologia all'Università di Kyïv, dove nel 2016 ha conseguito il dottorato in teoria della letteratura e comparatistica. Vincitrice della 67ª edizione del premio Ceppo Internazionale Poesia "Piero Bigongiari". Scopiamo questa antologia di poesie, la prima tradotta in Italia.

Classe ’88, dottore di ricerca in Teoria della letteratura e comparatistica presso l’Università di Kiev, vicepresidente dell’Associazione degli scrittori ucraini, Djadčenko è la vincitrice della 67a edizione del Premio Ceppo Internazionale “Piero Bigongiari” di Pistoia, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi. Ospite mercoledì a Bologna de Lo Spazio Letterario (con Riccardo Frolloni e Francesca Serragnoli) e venerdì – esattamente a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina – a Firenze nella Sala del Gonfalone del Consiglio Regionale della Toscana, l’autrice utilizza una lingua volutamente disorientante («mi confondo nelle parole. nelle lingue mi confondo») e silicea – contornata di minuscole e con una chiara predilezione monostrofica – che alla rigorosa «algebra della mente» aggiunge un «umorismo» capace di sfidare la melanconia e la sofferenza (così nella motivazione di Iacuzzi). 

i libri somigliano alle mestizie dei poeti:
un po’ di domande
un po’ di sogni
un po’ di umorismo
ma come spesso capita è stato male interpretato.

Nota giustamente Galvagni nell’introduzione:

Compare spesso Dio in questi monologhi interiori, la poetessa lo interroga, lo osserva. L’amore, la solitudine, il tempo, l’attesa e la ricerca, la perenne ricerca dell’essere. In scene disegnate attraverso la nostalgia e l’incertezza, Ljudmyla osserva quasi come dall’altro lato di uno specchio, conversa con i paesaggi, con gli animali. L’autoreferenzialità diventa un fatto comune a tutti, perde la monotonia e si tramuta in un momento di magia

Pur non trattandosi di una lirica dichiaratamente civile, l’atteggiamento “etico” dei versi di Djadčenko perfora il muro della terra con le sue circonvoluzioni metafisiche, si apre a una desiderata alterità, specchio dell’io e sintomo di una pace da cercare interiormente ed esteriormente:

la fobia dei numeri. il coro di storielle postate
stringe gravemente il profilo della mia malinconia
scriverai anche di come parlano i becchi delle cicogne
io – del duro lavoro di baba jaga
la fobia dei numeri che da domani come nebbia penzoleranno:
allusione della vita al tempo che va in secca
in silenzio li guardo – spavento vicendevole
preparo il letto con indosso una camicetta di lino
lanciare un urlo perché sia molto più la paura
e accettare docilmente i nidi dei miei anni
agli uccelli sulle finestre una mano sbriciolerà il pane
con fiducia: al mattino mi desterà il loro canto

A conclusione del volume, c’è una forte e accorata lettera di Liudmyla Djadčenko che si conclude nel segno della speranza

«Adesso mi rendono felice le cose quotidiane. Provo nostalgia dei giorni in cui tutti i miei amici erano vivi, quando c’erano luce e acqua, prima di trascorrere metà delle mie giornate in uno scantinato, nascondendomi dai missili. E quando scrivo una poesia, adesso, piango come una bambina, perché mi accorgo che l’anima è in grado di vedere la bellezza, anche in mezzo all’oscurità e al dolore».

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