Le macchine. Questa è una guerra di macchine. E anche la pace che un giorno la seguirà sarà una pace di macchine
A un certo punto, sembra proprio di stare dentro una torre di Babele. C’è chi parla sardo, chi napoletano, chi un francese un po’ biascicato. Ognuna di queste lingue è un codice tra chi si capisce, però ce n’è una che capiscono tutti, che è quella dei cannoni e della guerra. Quando si grida «fuoco!» o «ai ripari», si sa cosa bisogna fare, e il sommergibile diventa solo una macchina, che attacca o si inabissa. Quella del Comandante è una storia vera. Pare assurdo, perché sembra di trovarsi in Ventimila leghe sotto i mari, e invece è una cosa successa davvero.
Un'incredibile storia vera su un uomo che alla guerra preferisce l'umanità, a qualsiasi costo, ed è disposto a tutto pur di salvare vite, comprese quelle dei suoi nemici. Il racconto di come anche nella tragedia si debba restare umani.
Ogni capitolo è, come si dice, un POV diverso – vale a dire che a parlare è sempre un personaggio nuovo. E questo contribuisce a creare l’atmosfera claustrofobica e frenetica del sottomarino: siamo sott’acqua, con metri e metri di mare sopra di noi, e non si può uscire, si può solo chiacchierare, o dormire e ascoltare le voci diverse che si raccontano cose al limite dell’incomprensibile. Siamo tra l’equipaggio, tra chi scrive una lettera alla moglie a terra e chi elenca tutti i piatti che sa cucinare, uno per uno, per passare il tempo. Fuori, il nemico, che è il mare e la pressione, ma anche gli inglesi e le loro bombe di profondità.
È quando non c’è altro che puzza e movimento, e sacrificio, e vuoto, cioè nella maggior parte dei momenti, è allora che si rischia di impazzire
La storia è quella del sommergibile militare Cappellini, comandato da Salvatore Todaro. Di per sé, il comandante non ha un trascorso diverso da tanti altri eroi di guerra, anzi, sembra un po’ malmesso per essere annoverato tra di loro. Ma il coraggio – o la vanità – non gli manca e, nonostante il busto metallico per non fargli collassare la spina dorsale, si è imbarcato con i suoi uomini per una spedizione nell’Atlantico. Il profondo blu, spaventoso, dove nessuno dell’equipaggio è mai stato, in un’eco omerica delle colonne d’Ercole che rappresentano Gibilterra. Todaro sa come mantenere la calma e la rotta di fronte anche alle peggiori difficoltà, soprattutto di fronte alla possibilità che il sottomarino si trasformi in una bara a più di cento metri di profondità.
C’è anche un’altra lingua comune, oltre a quella dei cannoni, che sul sommergibile si parla. È la lingua degli esseri umani e – mi assumo il rischio di scadere nel patetico – della compassione. Perché ciò che è degno di nota, nella vita di Todaro, non sono tanto i meriti bellici, se in guerra esistono dei meriti, quanto quel minuscolo, impercettibile e fragoroso al contempo moto di volontà che l’ha convinto a ordinare, dopo aver affondato una nave belga in mezzo all’oceano, di salvare i naufraghi nemici.
L’ordine numero 154 di Dönitz è chiarissimo: dice che bisogna lasciarli lì, i superstiti, e andarsene. E anche gli ordini di Lord Cunningham, per gli inglesi, o dello stesso Churchill, sono uguali: colpire, affondare, sparire. Siamo in guerra, diamine
Ma Todaro non è solo in guerra, a quanto pare. È anche in mare. E il mare impone una legge diversa da quella degli uomini che non si può spiegare a parole, forse, ma che si sente, si percepisce insieme alle onde. E la legge del mare impone – e imporrà sempre – di salvare chi è naufrago. Questo perché il destino non di annegare, quello sarebbe semplice, ma di essere in balia di un dio così vorace e distruttivo è tremendo al solo pensiero.
E dunque chi è in mare va salvato, sempre. Anche se gli si è appena affondata la nave, il punto è un altro. «Noi affondiamo il ferro nemico, senza paura e senza pietà, ma l’uomo, l’uomo lo salviamo!», scrive Todaro alla sua Rina, che vorrebbe solo che la guerra finisse e non si dovesse salvare più nessuno. E noi con lei.
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