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La mia fuga da Kabul di Asmā

Finalista al Premio Inge Feltrinelli 2023

Ho sempre pensato che la perdita più grande sarebbe stata la morte di un mio famigliare, di mio padre o di mia madre soprattutto. Mi addormentavo quasi tutte le notti con quell’incubo. Il 15 agosto, quando i talebani si sono presi il mio Paese, ho provato lo stesso senso di perdita e ho capito che l’Afghanistan, per me, è come una madre e la sua gente una famiglia

Asmā

Inizia così il libro diario della giovane Asmā, i cui ricordi carichi di dolore, frammisti ai suoni stridenti della fuga, ai colori vivaci che lentamente sbiadiscono, e alle mail tanto agognate nel cuore della notte, lasciano spazio a una voce forse sottile, ma sempre presente, quella della speranza.
In La mia fuga da Kabul l’autrice ci racconta cinque giorni di folle travaglio, per lei sicuramente interminabili, per noi che li leggiamo con il fiato sospeso, travolgenti e dal ritmo isterico.
Mi piace definire questo racconto come denso di contrasti, che trovo siano portatori delle più forti sfumature di connotazione.

La mia fuga da Kabul. Diario dei cinque giorni che mi hanno ridato la libertà

Il 15 agosto 2021 i talebani occupano Kabul. Asmā ha 23 anni e tutti i progetti della ragazza che sognava un futuro in Italia sembrano crollare. Ma insieme al fidanzato decide di non arrendersi. Questo è il diario di cinque giorni vissuti pericolosamente i azzardi che sembrano la trama di un film d'azione hollywoodiano

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Il 15 agosto 2021 i Talebani occupano Kabul.
Quella mattina Asmā si sveglia rendendosi conto che nell’aria qualcosa è cambiato.
È una domenica assolata e in Afghanistan di domenica si lavora.
Lo stesso giorno, a quasi 7000 km di distanza, un professore universitario si appresta a trascorrere un piacevole Ferragosto in spiaggia, probabilmente maledicendo la ressa di gente festosa o infastidito dalla sabbia bagnata che si attacca sotto le piante dei piedi.
Tra di loro interminabili distese di terra e una fitta corrispondenza di mail, che se da un lato saranno rametti secchi per ravvivare il fuocherello della speranza, dall’altro un salvagente per non essere sommersi dal senso di colpa.

Asmā è nata in Pakistan dopo che i genitori da giovani sono stati costretti anche loro a una fuga.
A Kabul però ci è tornata all’età di quattro anni, è cresciuta tra le sue strade polverose e i parchi verdi, apprezzandone la bellezza contraddittoria, e infine si è innamorata. Asmā è una ragazza ambiziosa, taciturna e profondamente legata alla sua famiglia.
Laureata in Scienze Politiche, ha recentemente conseguito un master online presso un’università italiana.
L’Italia, proprio lì dove vorrebbe andare per completare i suoi studi e costruirsi un futuro insieme al fidanzato Wahid, anche lui studente dalle larghe vedute.

Il professore si ricorda di lei, anche se non l’ha mai incontrata di persona, anche se il suo viso contornato da una finestrella era spesso pixellato dietro lo schermo del pc.
Eppure, lui si ricorda bene di lei.
Così, ogni giorno speso nel pianificare una fuga impossibile sarà accompagnato dalle mail del professore, orchestratore di un piano forse folle, certamente disperato, eppure efficace; un mentore che ancora una volta guiderà i passi della sua giovane allieva a distanza.

Sembra la trama di un film, il professore deus ex machina e l’eroina che lotta per la sua vita, eppure di fantasioso non c’è proprio nulla.
E lo testimonia la minuzia di particolari con cui Asmā racconta quei giorni infernali, alternando i frastuoni degli spari per strada, tanto improvvisi quanto immotivati, la pesantezza di una paura stagnante che tuttavia non l’ha mai resa immobile, a scene di una quotidianità squisita che scaldano il cuore.
Di una madre che, nonostante la sua realtà sicura si stia sgretolando in briciole tra le mani, ancora prepara la spremuta di limone per rinfrescare i figli dalla calura estiva; di kebab mangiati insieme attorno a un tavolo traballante, di un padre che, saputo del piano di fuga della figlia, farà di tutto per darle un’occasione di libertà, ingoiando paure e diffidenze.

Ci sono situazioni in cui gli esseri umani vogliono soltanto sfuggire al pericolo, la mente si offusca, l’anima è assente e non resta che un corpo vuoto

Asmā

I cinque giorni dell’Odissea al rovescio di Asmā, in fuga dalla propria patria, sembrano guidati dall’alternarsi delle bandiere.
Quella della sua Afghanistan, rossa, nera e verde che è costretta a riavvolgere attorno al pennone, quella bianca talebana che invece sventola fiera nei checkpoint, macchiata dall’incubo di quei giorni interminabili, e infine il tricolore italiano, che disperata cercherà sulle uniformi dei soldati all’aeroporto pronta a gridare, sono io, sono Asmā, siete me che siete venuti a prendere.

Così non sorprende la candidatura di La mia fuga da Kabul al Premio Inge Feltrinelli, rivolto a donne e nuove generazioni che hanno offerto un’importante testimonianza nella lotta per i diritti umani.
La categoria è quella dei Diritti in costruzione e già dal nome si percepisce un’esigenza di riscatto, di cambiamento, di aspirazione. Mete che Asmā sembra aver rincorso da sempre, da quando ha deciso di specializzarsi in Master e studi che l’avrebbero resa più consapevole; da quando ha scelto accanto a sé un uomo dalla grande apertura mentale e rispettoso dei diritti delle donne.

Da quando imperterrita alla domanda, «Davvero vuoi già sposarti?» ha sempre risposto che si sentiva in grado di gestire entrambe le cose, una famiglia e la carriera. E forse il suo matrimonio non è stato memorabile. Ancor meno la luna di miele passata con la febbre, accartocciata tra le braccia di Wahid in un hangar freddissimo, in attesa di partire, smaniosa di un viaggio promesso che sembrava non avverarsi più.

Eppure, alla fine il suo aereo è decollato e Asmā ha toccato il cielo.

Mia sorella diceva: «Le tue mani non possono raggiungere il cielo, ma il tuo cuore sì». Avevo dieci anni, lei quattordici, era normale che conoscesse il cielo meglio di me. Una sera, mentre eravamo in cortile a guardare in su, mi disse: «Asmā, puoi avvicinarti al cielo!» E io mi sono chiesta: «Come?» Così ogni sera provavo ad avvicinarmi al cielo con le mani, finché ho capito che il cielo bisogna averlo dentro di sé

Asmā

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