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La vita senza i figli di Roddy Doyle

La vita senza i figli ha due tratti che lo contraddistinguono: il lockdown e i figli, o meglio, quello che resta dei genitori quando i figli vanno via. Bene, ora che mi sono sincerata di avervi chiarificato e rassodato abbastanza le linee guida – un po’ come quelle parti dei foglietti illustrativi, le uniche che ci interessano, in fondo: gli effetti collaterali – posso dirvi che sì, questo libro c’entra poco con tutto questo.

La vita senza i figli
La vita senza i figli Di Roddy Doyle;

Un uomo vaga estraniato per le strade di Newcastle mentre la notizia del virus che ha colpito l'Irlanda e il resto del mondo lo spinge a chiedersi cosa sia meglio fare. Un'infermiera esausta e impaurita per tutto quello che sta vivendo si sente ancora peggio dopo aver perso un paziente. Un padre si mette alla ricerca del figlio che non vede da tempo… Storie commoventi, piene di vita e amore

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Sì, perché Roddy Doyle ce la vende così, come piace al lui del resto, e ci fa credere che questa raccolta di racconti, edita da Guanda, sia una banale commistione di questi due macro-argomenti, di cui spesso – diciamocelo – siamo saturi. Ma invece no. Lui riesce a tenerti incollato lì, sfidante, con quella prosa tutta sua, chirurgica e sagace, mentre parla di una quotidianità banale, fermata nell’apice del suo accadere inarrestabile. Come direbbe Virginia Woolf, ferma il moment of being, quell’istante di epifania, in cui tutto si rivela ineluttabile, in cui capiamo che le cose hanno sempre avuto una forma fuori e dentro di noi, ma eravamo impegnati a disimparare a esserci, a vivere, e non lo vedevamo

Però quella sera – quella sera in cui aveva detto di non avere figli non era successo niente. Era tornato a casa. Si era affacciato nelle varie camere

Tutti i suoi personaggi hanno in comune lo spaesamento, forse frutto di un periodo di costretta chiusura ma, il passo che Doyle dà alle sue storie, lascia intendere che c’era già un pregresso, che si è arrivati saturi e distrutti a questo stato di abbandono a sé stessi, in cui, forse, ci si è riscoperti figli. È un ménage irrisolto quello con le proprie scelte di vita che, a un certo punto, con una pandemia o senza, non regge più.
Resta addosso quella sensazione di crescita forzata, di uno strappo che ti ha portato a questo modo di vivere, in cui sei calato con tutti i vestiti – panni tuoi, di altri, che non ti sono mai stati bene – e chissà perché adesso vanno rivoltati. Chi siamo senza i figli? Chi siamo senza i genitori? Chi siamo, senza?

E ora era davvero l’uomo senza figli. In casa non c’erano. In mente, al risveglio, non c’erano. Spesso i loro nomi sullo schermo, quando squillava il telefono, erano uno shock; niente intorno a lui o nel ritmo delle sue giornate glieli ricordava. Se n’erano andati. Non era un padre

La scrittura dei racconti solca il passo di una narrazione cinematografica, minima e intrisa di piccolezze e dettagli. Come in una sceneggiatura, i personaggi si delineano in piccoli gesti, forti e decisi, che non hanno bisogno di complessi ardimenti linguistici. Quasi un elenco di azioni qualunque e che, invece, denota uno studio umano infinitesimale. Azioni che si stagliano nella loro forma umana, con potenza e somiglianza a quello che ci circonda.

Si lava le mani per – tira a indovinare – quindici secondi. Pulisce la maniglia della porta con un asciugamano. Pulisce il manico della valigia. La apre e prende quello che gli serve – camicia, calzini. Ripulisce il manico. Lancia l’asciugamano nella vasca. Lo recupera e lo appende alla porta. Si siede sul letto. Guarda il telecomando sul comodino. Non lo tocca.

Ed ecco che scrive di cose minuscole e le rende metafora della vita, che sta lì e non viene toccata, ma anche lanciarla in aria è una soluzione.
Rimane la sensazione di essere dietro la quinta di un teatro, non ad attendere di andare in scena, ma di essere intenti a sbirciare le prossime mosse, le nefandezze che ci rendono tutti uguali: un movimento di mano, la pulsione a lanciare un oggetto, il modo di lasciarsi andare, di restare, quello di dirsi addio.

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Conosci l'autore

Si laurea in Lettere (Bachelor of Arts) per poi proseguire i suoi studi alla University College di Dublino.Insegna per quattordici anni inglese e geografia alla Greendale Community School di Kilbarrack, a nord di Dublino (la trasposizione reale della fittizia Barrytown che spesso fa da sfondo a molti suoi romanzi). A metà degli anni Ottanta Doyle inizia a scrivere un racconto dal titolo Your Granny's a Hunger Striker che non è stato mai pubblicato. Dopo qualche anno esce il suo primo romanzo, pubblicato in proprio grazie all'aiuto di un amico che riesce ad avere i finanziamenti necessari da una compagnia di proprietà del defunto Re Farouk. È il romanziere che più di ogni altro ha saputo raccontare l'Irlanda dei nostri giorni, come in The Commitments (la storia di un gruppo di musicisti sgangherati, uscito nel 1987 e di grande successo anche nella sua versione cinematografica) ed è considerato il capofila della nuova narrativa irlandese. Ha ottenuto uno strepitoso successo internazionale con Paddy Clarke ah ah ah!, vincitore del prestigioso Booker Prize nel 1993, anno in cui lascia l'insegnamento per dedicarsi a tempo pieno ai suoi romanzi. Ha scritto anche libri per ragazzi come Il trattamento Ridarelli (Salani, 2001), Rover salva il Natale (Salani, 2015), La gita di mezzanotte (Guanda, 2017).Tra le sue pubblicazioni in Italia (editore di riferimento Guanda) ricordiamo: Bullfighting (2011) La musica è cambiata (2015), L'amico di una vita (2016), La donna che sbatteva nelle porte (2018), Un anno alla grande (2019).

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