Ho pensato che era comunque un’altra domenica passata, adesso mamma era al cimitero, avrei ripreso il mio lavoro e, tutto sommato, non c’era niente di diverso
Meursault sta alla finestra e la vita accade. Algeri è morsa dal caldo, la gente va al cinema, i lampioni accendono la sera, e lui guarda il mondo passare. Muore sua madre, uccide un arabo: le cose gli capitano. «Ho pensato che era comunque un’altra domenica passata, adesso mamma era al cimitero, avrei ripreso il mio lavoro e, tutto sommato, non c’era niente di diverso».
È complicato, per un lettore qualsiasi, riuscire a non provare fastidio per il protagonista de “Lo straniero”, romanzo d’esordio di Albert Camus, del 1942, ripubblicato in una nuova traduzione qualche anno fa da Bompiani. L’effetto è repulsivo perché leggiamo di un uomo vuoto, piatto, indifferente alla vita. Non evolve, questo impiegato di Algeri, che conosciamo alle prese con un lutto e lasciamo in cella, apatico già dall’incipit, asciutto e memorabile: «Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Mamma deceduta. Funerali domani. Distinti saluti”. Non significa niente. Forse è stato ieri».
Pubblicato nel 1942, "Lo straniero" è un classico della letteratura contemporanea: protagonista è Meursault, un modesto impiegato che vive ad Algeri in uno stato di indifferenza, di estraneità a se stesso e al mondo. Un giorno, dopo un litigio, inesplicabilmente Meursault uccide un arabo. Viene arrestato e si consegna, del tutto impassibile, alle inevitabili conseguenze del fatto - il processo e la condanna a morte - senza cercare giustificazioni, difese o menzogne.
E per un personaggio così, davvero non significa niente farsi amico o nemico qualcuno, andare ad abbronzarsi dopo aver seppellito la madre, sposare Marie oppure un’altra, ammazzare: «Prima di uscire stavo addirittura per tendergli la mano, ma ho fatto in tempo a ricordarmi che avevo ucciso un uomo». Eppure, il suo inspiegabile subire ci intriga. Andiamo avanti pretendendo una smentita, che sia uno scoppio d’ira, un’autodifesa, una lacrima. Arriverà, ci diciamo. Ma Meursault non protesta, sta zitto. Non si discolpa, ammette. Lo straniero – francese tra algerini, come l’autore – si conferma prima di tutto estraneo.
Il mondo è in guerra quando viene pubblicato “Lo straniero”, e in quest’uomo strano Camus addensa il ritratto del suo tempo. La solitudine come stato di natura, la passività tutta novecentesca degli inetti.
Romanzo di frasi brevi, aride di aggettivi, e perciò simili al personaggio, che parla in prima persona, che non divaga e commenta poco, salvo poi allargarsi nei punti in cui la temperatura narrativa sale, come su quella spiaggia rovente fuori città, nel faccia a faccia con l’arabo. Allora la pagina prende respiro: finiamo dentro l’afa, tra rocce, tamarindi e asfodeli bianchi, con gli occhi «ciechi dietro una cortina di lacrime e sale», rimbambiti di sole. Da qui, dall’atto terribile di cui Meursault si fa colpevole con freddezza, la lingua cambia, si interiorizza; e così la sua esistenza, quando con quattro colpi di pistola bussa «quattro volte alle porte dell’infelicità». Nella seconda metà del libro, lucida e bellissima, siamo con lui, a ragionare del paradosso della vita, dell’assurdo di assolvere o condannare. «Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione […] Niente, assolutamente niente aveva importanza». Alla fine, ecco, conviene abituarsi a tutto, compreso morire.
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