Il suo titolo potrebbe facilmente trarre in inganno. Infatti, Lost in translation di Ottavio Fatica (Adelphi) potrebbe sembrare una semplice raccolta di sei brevi testi sull’arte della traduzione che l’autore ha affinato confrontandosi negli anni con Herman Melville, R. R. Tolkien, W. H. Auden, Louis-Ferdinand Celine e molti altri.
Eppure, questo nuovo volume della collana Microgrammi è sicuramente molto di più; potremmo definirlo una indagine su cos’è la poesia e su cosa fanno i poeti. E ancora più precisamente, su come la poesia, e i poeti, influenzino le nostre esistenze.
«Il traduttore ha come compito l’interpretazione dei segni, che sono anch’essi sogni, di quei sogni che imbastiscono parole, che le animano: che sono le parole».
Per poterci spiegare meglio, però, è necessario fare un passo indietro, e chiarire innanzitutto i fumosi concetti di poesia e di poeta. Bisogna ritornare per qualche istante a quel poema in 1775 frammenti che compose Emily Dickinson, nella sua stanza di Amherst, sul finire del XIX secolo.
In particolare, ci sono due versi che ci vengono in aiuto, perché danno del mestiere della poesia, e dei poeti, un’immagine chiara e delineano inoltre un’attitudine irrinunciabile per fare poesia, o per essere poeti. I versi sono questi:
Accendere una lampada e sparire –
questo fanno i poeti –
Dopo secoli di tortuose definizioni e teorie letterarie, Dickinson riesce a darci delle definizioni elementari, che possiamo desumere senza difficoltà: la poesia è tutto ciò che illumina le nostre vite, quindi non si limita a tradursi soltanto in quei testi che ogni tanto vanno a capo, la poesia è una luce, è tutto quello che ci permette di vedere più nitidamente il mondo e la sue complessità; i poeti allora sono quelle persone che accendono la luce, che costruiscono la lampada (poietés in greco antico significa letteralmente «colui che costruisce»), sono quelle persone che permettono che la luce esista, che possa rischiarare le nostre giornate: la luce ha bisogno di una fonte, i poeti sono la fonte.
Ma il loro destino non è soltanto essere l’origine della luce: il loro futuro è l’ombra. Non possono permettere che la loro presenza oscuri la poesia; affinché la poesia viva, è necessario arretrare, guadagnare l’oscurità, lasciare spazio alla sola parola.
Se pensiamo alla figura di Emily Dickinson, quei due versi sembrano il tentativo di descrivere una chiamata, una vocazione a un atto supremo. Fare luce, dunque, e poi indietreggiare.
Tornando a Lost in translation di Ottavio Fatica, sono innumerevoli le coincidenze che potremmo riscontrare tra l’attitudine, o meglio la vocazione poetica, della Dickinson e l’agire del traduttore abilmente narrato nelle pagine dell’autore perugino.
Potremmo dividere anche stavolta il nostro procedere in due momenti: prima, fare luce; dopo, scomparire. E in due esempi che propone lo stesso Fatica: le Storie di fantasmi e spiriti del Giappone di Lafcadio Hearn e la saga del Signore degli anelli di Tolkien.
Il primo esempio racconta cosa significa fare luce. E prende le mosse da un uomo che si chiamava Lafcadio Hearn, un viaggiatore irlandese di fine Ottocento, che era rimasto rapito dalla cultura e dalla mitologia nipponica al punto che aveva deciso di tradurre in inglese tutte le storie che riusciva a recuperare durante i suoi soggiorni nel paese del Sol Levante.
A questo punto accade l’impensabile. Le sue traduzioni dal giapponese hanno così tanto successo che vengono nuovamente tradotte in giapponese. Lafcadio Hearn, che voleva riportare ai suoi connazionali linguistici la tradizione mitica del Giappone, supera tanto i suoi obiettivi che finisce per far riscoprire agli stessi giapponesi la loro mitologia.
Cos’è successo? Fatica lo spiega benissimo:
Lafcadio Hearn ha il grande dono della soul-simpathy, della partecipazione animica, il segreto dell’artista come traduttore. [Il Giappone] Lo capisce e ce lo fa capire meglio di qualsiasi altro scrittore perché lo ama di più, lo ama meglio; e di un amore più forte, più coinvolgente e strano parlava Hofmannsthal nel ricordarlo, dell’amore che partecipa della vita interiore del paese amato: soul-sympathy, di nuovo, intesa d’anime
Parafrasando la poetessa statunitense, potremmo dire che Lafcadio Hearn «ha acceso una lampada». Ha permesso che un paese illuminasse le sue stesse origini, ritrovasse le sue stesse parole. La poesia, in questo caso, è stata la traduzione; il poeta, il suo traduttore. E se questo è risultato possibile, è perché il traduttore ha amato di più, meglio, quelle parole, quelle storie, quel paese.
Perché, senza dubbio, al fondo di ogni poesia, di ogni lampada, di ogni luce, l’innesco è la soul-simpathy, l’intesa d’anime, l’amore.
Il secondo e ultimo esempio, invece, è sullo scomparire e segue il tortuoso cammino di Frodo e Sam lungo l’intero capolavoro tolkieniano.
Fatica tratteggia con saggezza il ruolo di Sam nella missione che porterà alla distruzione dell’anello del Signore Oscuro. Un ruolo in apparenza gregario, il prode scudiero del protagonista. Eppure, senza la guida di Sam, Frodo non sarebbe mai riuscito a raggiungere il Monte Fato e dare fine al regno di Sauron. Sam ha tracciato la strada, gli ha offerto tutto il sostegno di cui aveva bisogno, e raggiunta la meta ha fatto un passo indietro perché fosse il suo padrone a compiere il destino che gli era stato assegnato.
L’autore di Lost in translation legge questo passo con particolare acume, definendo l’esperienza di Sam coincidente a quella del «traduttore come sherpa», come guida che accompagna amorevolmente il proprio protetto e sa quando lasciarlo alla ribalta per segnare la meta, come il poeta che sa quando scomparire per lasciare che la poesia abbia tutto lo spazio che merita. Leggiamo:
Questo fa il traduttore sherpa con l’opera tradotta, fa da intercessore. La traduzione sta sotto la dura legge della sostituzione. Ma così apre a impagabili, inedite supplenze
Queste «inedite supplenze» forse hanno lo stesso aspetto della vocazione artistica di cui parlavamo poco fa. Che ci mostra quanto i veri gesti poetici sono sempre gesti d’amore e d’ombra. E di questi rari tipo di amore e ombra le pagine di Lost in translation di Ottavio Fatica sono il più valido testimone.
Ottavio Fatica ci è venuto a parlare di questo saggio e del mestiere di traduttore: potete leggere la nostra intervista qui.
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