Come suggerisce il titolo stesso, Per il gran mare, breve silloge di appena trentacinque poesie dello spagnolo Andrés Sánchez Robayna – tradotta da Valerio Nardone per Passigli Editori –, è un tributo all’insondabile bellezza marina.
Attraverso una lirica profondamente esistenzialista, il poeta medita sui concetti metafisici come l’unità, l’individuo e l’universo. Si sofferma a contemplare le strade, i parchi, gli angoli frustati dal vento; celebra la memoria dei volti dei suoi cari, e delle notti e dei giorni ormai trascorsi. La sua poesia si dipana su un equilibrio sospeso, sempre teso fra l’avvenire e il passato che il poeta tenta, invano, di sfiorare.
Così come le onde non cessano mai il loro moto, questi componimenti scandiscono l’eterno fluire del mare, che parte da un punto indistinto dell’orizzonte per poi tornare a riva.
Per Robayna, i flutti rappresentano non solo il pensare poetico, ma anche la dimensione del nostro tempo interiore, la caducità della vita, il nostro essere in fondo solo dei piccoli, insignificanti frammenti del tempo.
"Per il gran mare" segna una nuova tappa nella traiettoria poetica del poeta spagnolo Andrés Sánchez Robayna e getta nuova luce anche sulle raccolte precedenti, due delle quali già apparse in questa collana, "Il libro, oltre la duna" (2008) e "Dell'ombra e l'apparenza" (2012).
L’azzurro simboleggia l’infanzia, che Robayna riesce a ritrovare tramite la parola poetica: è il punto di incontro per rivivere l’inconsapevole spensieratezza dei primi anni di vita.
Fra scogliere e viali marini, in un’atmosfera quasi surreale, sospesa fra sogno e veglia, lo stesso linguaggio diventa suono: «I rintocchi son sillabe. / Li leggo / al pari di parole / nel mattino che torna / ed in quello che un giorno / verrà.»
Immersi in atmosfere profondamente estive e densi di cromie calde, questi versi sono scanditi dai rintocchi delle campane, che da una parte rappresentano i ricordi del poeta, dall’altra l’inesorabile scorrere del tempo, che riecheggia dentro la sua anima e si espande in eterno: «Il ricordo non resta: gira e gira, / o forse sono io che giro in lui. / E tutt’intorno a quel ricordo gira un notturno mattino di campane.»
In una contrapposizione perpetua fra presenza e assenza, visibile e invisibile, Robayna si muove come un funambolo: vive di equilibri precari, è instabile, percorre i ciottoli del suo paese, contempla il sole del mattino, ricorda la spensieratezza delle chiacchierate fatte con gli amici nelle terrazze di Parigi, la quiete del dolce far nulla.
Infine le stesse parole diventano carne, una parte inesorabile e ineluttabile dell’essere umano: «Questo sei tu, non puoi fuggire da te stesso, / […] questo sei tu: / parola, / destino di parole. / Obbediente alle sillabe che formano / nel cielo notturno una cieca legge / che dice il tuo destino di parole.»
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