E, siccome l’unica cosa che riesce a risolvere gran parte dei nostri problemi è ballare, io mi butto, e ci dirigiamo entrambi nella zona davanti al palco. Io violo i limiti della mia tristezza, e mi riverso in quello spazio condiviso, i nostri movimenti delicati e vivaci, il ritmo che ci porta più in alto, altrove, oltre la parte di noi stessi che riconosciamo, verso quelle che non sempre affrontiamo, le parti sincere di noi stessi, e con il batterista che suona ancora più veloce, saliamo, più lontano, più veloce
Stephen è un ragazzo di diciotto anni, nato e cresciuto in un sobborgo di Londra, Peckham – dove è racchiuso tutto il suo piccolo mondo – ma i cui genitori, Eric e Joy, sono originari del Ghana. Si erano trasferiti, come tanti loro compatrioti, da molto giovani, in cerca di opportunità che la loro terra madre non sembrava essere in grado di dargli, e hanno trovato ad accoglierli una realtà fredda, dura, di sfruttamento e razzismo diffuso, contro la quale si sono infranti i loro sogni di giovinezza. Nonostante ciò, sono stati capaci di costruire uno spazio all’interno del quale far esistere la possibilità di essere liberi e aperti, di sentirsi a casa – tutte espressioni che tornano più volte nel corso della narrazione, come giri di volta di un’improvvisazione jazzistica. Non a caso, perché la musica, il racconto della musica e delle sensazioni che è in grado di evocare, della sua forza costruttrice di comunità, occupa un posto centrale in Piccoli mondi di Caleb Azumah Nelson (Blu Atlantide).
L'unica cosa in cui Stephen riesce a riconoscersi davvero è la musica. Danzerebbe ovunque: in chiesa con i suoi genitori e suo fratello Raymond, con i compagni di sempre in qualche scantinato, con la sua migliore amica Adeline o da solo, ascoltando vecchi dischi di un padre che vorrebbe capire meglio.
In primis, del jazz questo romanzo ha il ritmo – lento e dolce, intimo e struggente – e la struttura: archi concentrici che si snodano e poi tornano su sé stessi, con riprese segnate da espressioni ripetute più volte. Un movimento che rimanda anche a quello tipico del racconto orale, con i suoi moduli espressivi reiterati che aiutano la memoria e scandiscono la narrazione.
Il racconto in sé, infatti, è un altro tema centrale nel romanzo: è attraverso i racconti che si allacciano i rapporti e si mantiene vivo il ricordo di un passato – quello del Ghana e dei genitori – che, altrimenti, rischierebbe di scivolare via e perdersi, portando con sé le radici e l’identità delle persone che vi sono legate.
Allora mi accorsi che in realtà mi conoscevo solo in musica.
Nella calma, nella libertà, nel lasciarsi andare.
Dopo, tornando alle macchine, esausti ma ancora così sazi, dicevamo cose del tipo: «Non sapevo di avere bisogno di una cosa del genere», e: «È stata un’esperienza spirituale».
È un universo fatto tutto di piccoli mondi quello che traccia Nelson in quest’opera, la sua seconda dopo l’apprezzatissimo Mare aperto, uscito in Italia, sempre per Atlantide Edizioni, nel 2021. Piccoli mondi che la comunità africana e afrodiscendente cerca di costruire per sentirsi a casa in un paese respingente – quando non direttamente aggressivo e persino assassino –, per avere uno spazio di libertà, in cui sia possibile muoversi e crescere, trovarsi e costruire rapporti. Ma si tratta di uno spazio costantemente minacciato, fragile, messo a repentaglio da attacchi di violenza gratuita e ingiustificata (come l’assassinio da parte della polizia di Mark Duggan, che ha dato origine ai disordini del 2011), che piovono sulle spalle della comunità Nera (Nelson usa la maiuscola quando scrive quest’aggettivo, in continuità con quella tradizione di pensiero che vuole ridare dignità a un aggettivo usato, fino a quel momento, per denigrare e umiliare) quando meno se li aspetta: quando pensa, finalmente, di poter abbassare la guardia e godersi quel pezzetto di casa che si è faticosamente costruita.
Il romanzo si snoda su tre estati diversissime tra loro, ma unite dalla percezione di uno scorrere del tempo lento e dilatato, che lascia spazio all’esplorazione di sé, dei propri rapporti e di quelli col mondo circostante. Perché, in primo luogo, Piccoli mondi è un romanzo di formazione che, se per i temi e l’ambientazione può ricordare Il giovane Holden o Il Budda delle periferie, è però infinitamente più dolce e caratterizzato da una scrittura fortemente lirica. Stephen si affaccia infatti alla vita adulta senza quella rabbia distruttiva che connota i suoi coetanei letterari: è profondamente introspettivo e disposto a mettersi in discussione – nonché, spesso, attento e amorevole. E non solo, come potrebbe essere scontato, nei suoi rapporti con i personaggi femminili – sua madre, Del (la ragazza di cui è innamorato) – ma anche con quelli maschili, segnati da scene di tenero affetto.
In questo, risiede uno dei molti punti di forza del libro: Nelson disegna persone (e rapporti) delicate, fragili. Che, anche quando non sembrano disposte – perché incapaci, perché troppo ferite e prive delle parole per articolare il loro dolore – a comunicare, sanno che quella è l’unica cosa da fare, l’unica che può risolvere i loro problemi: aprirsi, parlare, trovare un contatto con le persone che ci stanno a cuore.
Di lì a poco ci rimettiamo in piedi. Vado al giradischi, chiedendomi cosa dovremmo mettere su dopo. Mio padre gira per la stanza, spalancando le braccia come se avesse tutto il mondo in pugno. La morbida luce estiva gli adorna la testa mentre scuote il capo, quasi incredulo di questo momento, e mi chiede: cosa saremmo se avessimo sempre avuto questo tipo di spazio? E io gli dico, nel silenzio che cala in quel momento, quello che so, quello che sento in quel momento: liberi.
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