La bellezza è una domanda: «Che cosa farai di me?»
Innumerevoli sono – o forse vorremmo che fossero – le occasioni per fare esperienza di questa bellezza, che sia un brano musicale, un’opera d’arte, la pagina di un romanzo, una fotografia, ma quando e se avviene (e ce ne avvediamo), ecco, la bellezza è sempre una domanda: «Ti limiterai a osservarmi? mi racconterai per condividermi con altri? proverai a capirmi con gentilezza o sarà una vivisezione? mi ignorerai oppure mi farai a pezzi perché sei irrisolto rispetto al bello dell’esistenza?» La bellezza di per sé non conta granché nel suo essere relativa; ma come ci relazioniamo a essa racconta chi siamo, a noi stessi e agli altri. Qui, di seguito, parliamo di un cercatore di bellezza declinata in questo senso: Guido Harari, e la sua ultima raccolta di scatti, Remain in light, edito da Rizzoli.
Sono centinaia le persone che Guido Harari ha ritratto in ben cinquant'anni di carriera, mezzo secolo che viene ora celebrato con questo prezioso volume di oltre quattrocento pagine. Una incredibile galleria di storie e immagini in un condensato del suo talento
La lettera rubata di Edgar Allan Poe si può leggere come metafora di quella legge universale che afferma: la cosa più in vista è quella che si nota meno. Le ragioni di questo incredibile fatto sono neurologiche, psicologiche, culturali. Finché erano solo negli album di famiglia forse no, ma oggi – con la rete e gli smartphone – le fotografie sono diventate esattamente come quella lettera rubata.
La rete è impermanente. Nell’istante, e sui lunghi tempi. Nell’istante, perché il nostro analfabetismo visivo ci porta a soffermarci su uno scatto incrociato online, in media, tre secondi; e poi siamo già passati all’immagine successiva. Ed è impermanente sui lunghi tempi, perché non è affatto garantito che un file, su qualche piattaforma, resti lì per sempre, né che gli algoritmi dei motori di ricerca lo preservino nello tsunami delle 3600 foto caricate su Instagram ogni secondo, dei 41.000 post ogni sessanta su Facebook in contemporanea ai 20 milioni di scatti su Flickr, stando alle stime di Edinet. E tuttavia anche i social muoiono. Chi si ricorda di Myspace, Friendster, Google+. Andati, e con essi centinaia di migliaia di scatti. Ovviamente non si tratta del si stava meglio quando si stava peggio; ma la lettera rubata è lì. La percezione personale e culturale che abbiamo del fotografico è una costruzione che, alla prova dei fatti, traballa.
Non si può scrivere di fotografia, perché migliaia sono i saggi che già ne parlano, da ogni punto di vista, e anche in modo molto approfondito: dalla storia alla filosofia della fotografia, fino al virtuale, alle intelligenze artificiali che non solo riconoscono volti, ma sono capaci di generarne di nuovi, perfettamente credibili, e che non appartengono a nessun essere umano in carne e ossa. Le implicazioni e le ripercussioni pratiche sulle nostre esistenze sono argomento attualissimo di dibattito: dalla privacy alle fake news, dal decision making che si fonda su modelli virtuali generati da algoritmi genetici, al groppo alla gola per quella foto che una persona vuole condividere online con tutti i suoi contatti, ma non con noi.
Allora, acquistare un libro fotografico è un gesto rivoluzionario e sano, per sé e per il mondo circostante. Un volume di fotografie ha un peso, spesso considerevole, riporta la fotografia alla sua presenza fisica. È lento: bisogna sfogliare le pagine, una per una, con le mani. È ingombrante: diventa uno degli abitanti della propria casa, quella che qualcuno definiva «il nostro corpo inorganico».
Non si può scrivere dell’ultima raccolta fotografica di Giorgio Harari. Si può osservare, più volte, e a distanza di tempo, con attenzione; e misurare quanto cambiamo noi di fronte ai suoi scatti, nel preferirne uno anziché un altro, nei ricordi che tornano a galla, nel grande perso nel tempo di tutto ciò che è rimasto appena fuori dai margini delle sue fotografie. La fotografia d’arte è quella cosa che parla di un istante altrove, ma allo stesso tempo è lo specchio in cui sorprendiamo noi stessi come non sappiamo di essere, quando senza pensare diciamo «questa fotografia mi piace», «questa mi ricorda…», «no, questa fotografia mi fa impressione», eccetera. Siamo noi, non la cosa ritratta.
Giorgio Harari è il fotografo di Woodstock e di tutti i palchi del mondo: quello di Santana, Brian Eno, Freddy Mercury, Mick Jagger, Lou Reed, Keith Richards, Bruce Springsteen, dei Ramones, di David Bowie, dei Pink Floyd, di Kurt Cobain, Miles Davis, Bob Marley, Michael Jackson, la lista è infinita. Di tutti gli immortali. Ma è anche il fotografo di Lina Wertmuller nella vasca da bagno, Fabrizio De André addormentato davanti a un termosifone, John Café che si sporge dal finestrino di un treno in corsa, Patti Smith scalza a Villa Arconati, Giovanni Lindo Ferretti che abbraccia un cavallo, Paolo Conte che suona il kazoo, Vinicio Capossela che fa il bagno vestito in un rigagnolo di Contrada Chiavicone, Antonello Venditti che compra fiori a Roma, Gregory Corso che prende il sole a Positano, Umberto Eco che suona la tromba, Margherita Hack che innaffia i fiori, Alda Merini al telefono.
Qualcuno ha scritto che non si diventa artisti per produrre arte, ma per intraprendere un viaggio personale. La fotografia è una sfida all’impermanenza della vita, per mostrarne tutta la potenza e la magia, per esserne partecipi saltando rituali e convenzioni. Fotografie è vivere più vite in una, dilatare all’infinito i propri orizzonti
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