Ho visto Rifkin’s Festival di Woody Allen.
Trama: un professore di cinema in là con gli anni segue la moglie, più giovane e avvenente, al festival di San Sebastian, subodorando un possibile tradimento.
Allen scrive una commedia che dieci anni fa avrebbe interpretato in prima persona, deve pertanto scegliere con cura il suo alter ego e lo fa puntando su un caratterista a lui ben noto, a sua volta ebreo: Wallace Shawn. Il suo volto, riconoscibile, è stato visto in “Manhattan”, “Radio Days”, “Ombre e nebbia” e “Melinda e Melinda”.
Il cineasta mette sul tavolo alcuni temi ricorrenti a lui cari (l’ineffabilità dei rapporti di coppia e la loro inevitabile imperfezione, il potere sorprendente della vita di mettere sul nostro cammino persone che ribaltano le nostre aspettative o ne creano di nuove, la vacuità di facciata del mondo a cui lui stesso appartiene, l’importanza della parola a fronte dell’azione etc.) e sembra denudarsi sempre più davanti al suo pubblico, esplicitando alcune fonti di ispirazione incontrate nel corso degli anni. Per compiere ciò, si affida a un escamotage delizioso, quasi certamente il motivo per il quale anche quest’ultimo lungometraggio – non memorabile benché al 100% alleniano – avrà avuto motivo di essere: i sogni in bianco e nero nei quali gli omaggi a film e registi cari si innestano sulle vicende sentimentali del buffo protagonista.
Se la vicenda delle due coppie si muove sui binari classici dell’autore, gli intermezzi onirici e citazionisti danno un battito d’ali all’opera: si va da Quarto potere di Welles a Fellini, dal trittico francese Un uomo, una donna di Lelouch, Jules e Jim di Truffaut e Fino all’ultimo respiro di Godard a Buñuel, avendo i picchi più belli nei due riferimenti a Ingmar Bergman (Il silenzio e Il settimo sigillo) che già lo aveva ispirato per il suo Interiors. Se nel secondo l’aver scelto Christoph Waltz per il ruolo della morta incappucciata che gioca a scacchi dà un inevitabile tocco di sardonico umorismo nero, nel primo l’idea di far parlare la protagonista per un breve passaggio direttamente in svedese è un vero e proprio colpo di genio. Accanto a Shawn recitano Gina Gershon (qui al suo meglio), Louis Garrel, Steve Guttenberg, Sergi Lopez, Elena Anaya e il celebre volto de La casa di carta Enrique Arce. Luci sempre calde di Vittorio Storaro e consueto jazz in sottofondo.
In sostanza: possiamo serenamente definire Rifkin’s Festival un’opera minore, ma per minore che sia, la densità intellettuale e cinefila che permea la solita ora e mezza di montato è rigenerante per le nostre cellule grigie. Soprattutto, la riflessione amara e sincera sull’impossibilità di avere seconde possibilità col procedere dell’età, l’effimera speranza che illude mentre si affronta la china discendente dell’esistenza e il tema del recupero della memoria e dell’elaborazione di essa, obbligano a meditare e ricordano che la commedia umana ha sempre una nota di amarezza in filigrana.
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