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The Father di Florian Zeller

La storia di un ottantenne che si trova a dover fare i conti con un principio di demenza senile e a confrontarsi con la figlia e altre persone, volti che finiscono col sovrapporsi.

Il regista esordiente – già enfant prodige della scrittura francese, Florian Zeller – parte da una sua pièce teatrale e mette in scena una specie di incubo della mente. Che l’originale fosse stato pensato per il palcoscenico è chiaro a partire dal fatto che la quasi integrità del lungometraggio si svolge all’interno della casa del protagonista. Purtuttavia, ciò non conferisce né pesantezza né noia al dipanarsi della vicenda, principalmente grazie ai seguenti motivi: 1) la regia è puntuale, attenta, sinuosa nell’avvolgere i personaggi e nel restituire punti di vista differenti; 2) la casa scelta come set ha diversi ambienti e questo permette di avere quasi la sensazione di variare location; 3) la recitazione, inevitabilmente punto di forza di una simile sceneggiatura, diventa la chiave di volta di tutto e i volti si trasfigurano – letteralmente – in luoghi.

Non a caso, Anthony Hopkins ha vinto un meritato secondo Oscar come miglior attore protagonista e Olivia Colman ne ha sfiorato un altro. Se le caratteristiche del primo sono note a tutti – e qui vince con una dolenza opposta alla folle strafottenza del suo Hannibal Lecter – la seconda conferma di avere un talento fuori dal comune e si avvia a diventare la Meryl Streep inglese, per intensità e sincerità interpretativa.

L’opera non può non appoggiarsi (involontariamente?) a un riferimento letterario alto: Jorge Luis Borges. Anzitutto per la sua pervicacia nello squadernare il labirinto dei ricordi, della percezione e della realtà, restituendo una progressiva discesa – tenera e tremenda al tempo stesso – nell’intelletto sempre più obnubilato di un uomo che fatica a districarsi tra ciò che è, ciò che crede sia e ciò che vorrebbe fosse.

Nel momento in cui si sacrifica la caratteristica primaria di un film – in inglese chiamato non a caso “movie”, avendo in sé come elemento base il movimento – per vincere la scommessa registica è necessario puntare su altro e Zeller dimostra già di saperlo fare: una fotografia accurata (le luci ritagliano le figure e indagano nei minimi scarti dei volti), musiche accompagnanti ma non preponderanti (Ludovico Einaudi è una delicata presenza), dialoghi ficcanti (e non a caso Zeller stesso ha vinto l’Oscar come miglior sceneggiatura non originale, in coppia con Christopher Hampton). Non ultimo, l’intelligenza nel tenere l’opera all’interno di un minutaggio contenuto, gli aurei novanta minuti della Hollywood classica, per evitare l’effetto claustrofobico.

Non potrebbe esserci risposta migliore al proliferare interminabile di film americani basati su eroi dei fumetti e/o su effetti speciali stupefacenti. Qui gli unici effetti speciali sono l’arte sopraffina della recitazione del duo inglese e i dialoghi che li riguardano. Un film (in v.o. vale doppio) che è delizioso sogno angoscioso, in grado di atterrire più di qualsiasi horror, poiché potrebbe riguardarci per davvero.

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