Sembra impossibile inventare qualcosa di nuovo al giorno d’oggi. Poi ci si imbatte in The Good Place, la commedia creata da Michael Schur - uno che con le serie ci azzecca, già ideatore di The Office e Brooklyn Nine-Nine - e si cambia in fretta idea.
Già dalla prima inquadratura la storia è spiazzante: Eleonor, una ragazza dell’Arizona - interpretata da Kristen Bell - apre gli occhi e su un muro c’è scritto: Welcome, everything is fine! (Benvenuta, va tutto alla grande!). È in paradiso! Viene unita alla sua nuova anima gemella Chidi, insegnate di filosofia morale, e sembra che tutto vada davvero alla grande. Peccato che Eleonor non sia quella buona persona che tutti pensano: in realtà è una stronca micidiale. Oh, giusto. Nel paradiso non si possono dire parolacce, ed ecco che Eleonor si deve abituare a questo nuovo forcuto linguaggio. Non deve farsi beccare, perciò chiede a Chidi se può insegnarle a diventare buona così da non dare nell’occhio, ma gli imprevisti sono dietro l’angolo. Riuscirà una figlia di pogliana come lei a nascondere la sua natura in mezzo alle persone più buone dell’universo?
Potete ben cogliere la sfida che gli sceneggiatori si sono messi in testa dietro ad una idea originale: come si può raccontare un conflitto se sei in paradiso? Semplice. Usando la più classica delle strategie shakespeariane: l’equivoco. Far accadere una cosa ad un personaggio nascondendolo a tutti gli altri. La sfida però è ancora più interessante, perché durante la serie, l’equivoco non si crea solo tra i vari personaggi, ma anche tra lo spettatore e la storia. Più volte si ha la sensazione di guardare un corso degli eventi prevedibile, quando si viene travolti da una traiettoria inaspettata. Ce ne sono molti di questi effetti a sorpresa, tutti molto credibili data la particolarità dei protagonisti: esagerati, ridicoli, ma profondi nelle loro fragilità. Del resto, ambientare questa storia nell’aldilà ci permette di percorre sentieri nuovi senza perdersi nei soliti contrattempi terreni: niente più telefono o automobili, ma solo cuccioli volanti e Frozen-yogurt a volontà.
Gli sceneggiatori fanno leva sui cliché (monaci buddisti, filantrope bellissime, professori impacciati) per confondere lo spettatore, in modo che, una volta svelati i primi trucchi, non viva più in maniera passiva ma partecipi all’aldilà assieme a tutti gli altri umani cercando di capire come risolvere i molteplici problemi che si vengono a creare per colpa di Eleonor. Bisogna aggiungere che non sono solo i conflitti dei personaggi a muovere la storia, ma anche questioni etiche. Perché tra le molte chiavi di lettura con cui poter giudicare la serie, c’è anche un risvolto educativo, seppur ben celato e mai palesato ai quattro venti. Ad esempio, il modo di affrontare la morte, l’illogicità della vita e cosa sia in fondo l’essere umano.
The Good Place ci porta così in questo viaggio nella profondità dei misteri terreni, facendoci ridere, riuscendo a commuoverci, e portandoci sempre per mano in un mondo per ora mai esplorato nella serialità televisiva: la parte buona. Un mondo in cui tutti vorremmo abitare. Ecco perché non ci importa quanto sia fuori posto Eleonor nel paradiso. Noi faremo il tifo per lei, e così facendo, faremo il tifo per noi, pensando che alla fine, un posto del genere, potremmo tutto sommato meritarcelo.
Nelle quattro stagioni di The Good Place si rimane stupiti dalla quantità di cose che si possono apprendere sulla filosofia morale, sulla bellezza dei difetti e sugli sguardi sulla vita visti dall’aldilà. Il tutto tra una risata e l’altra.
Finendo di guardare la serie ci si ritrova a considerare la parte buona non come un posto fisico, ma un viaggio da percorrere. Scivoloni e pitstop compresi. Il tutto vissuto con le persone giuste al proprio fianco.
Del resto, come nella vita, anche l’aldilà sembra essere un casino.
Un casco di casino stupendo, però.
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