The Irishman di Martin Scorsese

Il film narra, su piani temporali differenti, la storia di Frank Sheeran, un camionista irlandese che diventa killer per la mafia e poi stretto collaboratore del potente sindacalista Jimmy Hoffa.

Scorsese cede e, per portare a termine un progetto da 160 milioni di dollari, accetta la corte di Netflix, un compromesso che ha il principale merito di permettere al regista di chiudere probabilmente il suo discorso sulla mafia e sul periodo della sua giovinezza.

Avvalendosi anche della prodigiosa possibilità di ringiovanire i volti degli attori (tecnicamente, de-aging), riunisce i due totem italoamericani ultrasettantenni della recitazione, De Niro e - prima volta col filmmaker! - Al Pacino e affianca a loro l'anello conclusivo della Trimurti, Joe Pesci, uno che deve tutto a Scorsese e che anche stavolta dà il meglio di sé, sorprendendo per una recitazione contenuta, fatta di sussurri e aggressività suggerita, mai usata. Che differenza rispetto a “Toro scatenato”, “Quei bravi ragazzi” e “Casinò”…

Commuove vedere De Niro recitare nuovamente da par suo (accidenti alla sua bulimia attoriale degli ultimi 20 anni abbondanti) e Pacino sprizzare la consueta energia non contenibile.

Commuove udire quelle canzoni anni '50 e '60 che sanno invariabilmente di Scorsese, così come commuove che l'autore esiga si mostri che la tanto rappresentata violenza non porti solo alla morte, ma a qualcosa di peggio: alla solitudine e al rimorso. Questo il suo messaggio definitivo, questo il tratto finale del cerchio aperto con "Mean Streets".

E poi ancora, commuovono la telefonata disumana di Sheeran / De Niro fatta alla moglie di Hoffa e quel rapporto doloroso con la figlia Peggy, l'attonita e soldatesca esecuzione dell'esecrabile ordine e infine la non-scorsesiana lentezza di tutta la trascinata, lancinante, parte finale.

Il cineasta attraversa magistralmente due decenni di storia americana (merito anche dello script del decano Steve Zaillian), opta per toni dimessi, a partire dai colori desaturati di Rodrigo Prieto fino alla rinuncia alla spettacolarità dei movimenti di macchina (tolti due piani sequenza morbidissimi e gli spettacolari ralenti sui volti di alcuni meridionali emigrati, scelti accuratamente dal responsabile del casting).

Tolti gli inevitabili rimandi a se stesso, l’autore in qualche modo omaggia Michael Mann (il dialogo De Niro / Pacino sul letto è un costante campo-controcampo pari a quello di "Heat - La sfida"), sfiora il Martin Brest di "Scent of a Woman" nel ballo di Al Pacino, si lancia in un discorso surreale su un pesce lasciato in auto degno di Quentin Tarantino e dona a De Niro una dolente vecchiaia degna del Noodles di "C'era una volta in America" di Sergio Leone. Ma non solo.

Si è scritto di film-testamento, incluse facce note del suo cinema come - oltre ai due succitati - Harvey Keitel e Bobby Cannavale, ma forse lo è solo per il tema gangsteristico. Quantomeno lo si spera, per quello che ancora il Maestro sa dare.

In sostanza: tre ore e mezza (mi raccomando, in lingua originale!) di uno Scorsese non distante dagli 80 anni sono un toccasana, in un panorama colmo di supereroi e commediole, riconciliano col buio che avvolge quella solitudine in compagnia che solo il cinema può donare, trasportano in un antico mondo di ex-celluloide dove si incontrano la ricchezza di quello che si dice con la bellezza di come lo si dice e l’amarezza di come lo si vive.