Invece di andare a scuola, la maestra entrò nel bosco. Stringeva in una mano il giornale che aveva appena comprato e nell’altra la borsa di cuoio con dentro i quaderni, i compiti corretti e le penne e le matite ben temperate. Lasciò la strada senza esitare, come se il bosco fosse stato la sua meta fin dall’inizio. I mocassini pestavano un tappeto di foglie marroni e lucide che le sembrarono una distesa di frattaglie crude
Attraverso un ritmo veloce e introspettivo, che non lascia troppo spazio alle sequenze dialogate, in Tornare dal bosco (Marsilio) Maddalena Vaglio Tanet descrive la sofferenza che deriva da un lutto, quello di Silvia: una maestra di Bioglio che ha dedicato tutta la sua vita a questo ruolo. La donna vuole aiutare una sua alunna, Giovanna, che non è mai stata una “cima” a scuola, con un padre alcolizzato e una madre che non la sostiene. Il legame tra le due diventa sempre più forte e quando la bambina decide di ferire la sua famiglia (e forse la maestra) smettendo di esistere, Silvia crolla. Quasi inconsciamente si abbandona al bosco di Bioglio che conosce come un vecchio amico e che la accoglie circondandola in un abbraccio.
A partire da fatti reali e racconti di famiglia, articoli di giornali, dicerie e mitologie, l'autrice racconta una storia di possibilità e di fantasmi, di esseri viventi che inciampano in vicende più grandi di loro, e di bambini dei quali non si sa niente, se non che sono gli unici a conoscere quanta realtà ci sia nelle fiabe, quanto amore stia nella paura, e quante sorprese restino acquattate nel bosco.
La disperazione, la rabbia, il dolore sono esacerbati a livello narrativo come un caleidoscopio rotto: si ampliano e si chiudono in pentimento. E qui c’è la bellezza narrativa di Tanet. La sua scrittura incisiva tratteggia gli effetti delle reazioni umane e lo fa attraverso un linguaggio lirico che splende nella sua potenza poetica. È un po’ come mettere a confronto la luce e il buio. Questi due piani non creano contrasto, ma si completano: da una parte la morte, l’elaborazione del lutto che sfocia quasi in pazzia, dall’altra la schiettezza puerile che caratterizza alcuni personaggi. Questa dialettica luce-ombra, dà maggiore profondità alle vicende e rende al meglio ciò che Frank Kermode ha definito “il senso della fine”, specialmente per il personaggio di Silvia.
L’obiettivo di Tanet sembra quello di mostrare come il bosco e le sue varianti alternative (muffa, carcasse, la maestra, il dolore) creino una trama semantica che percorre il romanzo, dando luogo a dei cortocircuiti tra il livello narrativo e il sistema simbolico del testo. Uno di questi cortocircuiti è costituito da Martino, alunno della scuola e deuteragonista di Silvia, che trova proprio nel bosco la donna. Qui è Martino a prendersi cura di lei. Questo incontro è il nodo del romanzo. Sancisce, a una prima lettura, un ribaltamento dei ruoli non solo tra maestra e alunno; stravolge a un livello più ampio i ruoli degli adulti e quello dei bambini con una naturalezza sconcertante. In questo modo i personaggi, proprio come le emozioni, arretrano e tornano al loro stato più naturale, quasi primordiale e brutalmente genuino.
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