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True Detective, una serie inevitabile

Cary Joji Fukunaga si è immortalato – prima di passare a James Bond – mediante una serie tv antologica (parlo della prima stagione delle tre finora create, l’unica da lui diretta) la quale, come pochissime altre, ha saputo coniugare tensione narrativa, verticalità introspettiva ed eccellenza recitativa: True Detective, datato 2014.

L’ideatore della serie – totemico come lo fu David Chase per I Soprano – è Nic Pizzolatto, vero Deus ex Machina di quello che, a mio avviso, è semplicemente un capolavoro che veleggia dalle parti della perfezione. È altresì importante capire anche qualcosa della storia di Pizzolatto, poiché egli, originario della Louisiana, ha ambientato la storia proprio in quello Stato, che di per sé ha da sempre le arcane caratteristiche del pericolo e dell’inconoscibile, dell’essere ai margini di tutto ciò che noi pensiamo sia a stelle e strisce, immerso in scenari desolati o inquietanti, attraversato da tradizioni proprie e non spiegabile se non da chi ci ha davvero vissuto per lungo tempo: terra di paludi e di strisciante razzismo (si vedano, tra i vari, Easy Rider di Hopper e I guerrieri della palude silenziosa di Hill), popolata da mezzosangue e da cajun, in bilico tra la bellezza diabolica del jazz, del blues e del dixieland e l’inquietante vicinanza del Golfo del Messico che può spazzare via tutto in un attimo, tra tifoni e inondazioni perennemente in agguato.

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Le vite dei detective Rust Cohle e Marty Hart si intrecciano inesorabilmente nella lunga caccia a un serial killer in Louisiana, durata diciassette anni. Attraverso archi temporali diversi, vengono raccontate le vite e le indagini dei due detective, dal 1995 al 2012, anno in cui il caso viene riaperto.

In questo contesto già micidiale, si narra la vicenda di due ex compagni di divisa che da poliziotti avevano indagato su un serial killer. Quando con modalità analoghe pare essere tornato sorprendentemente in azione, parecchi anni dopo l’ultimo omicidio (che ancora tormenta le menti della comunità e dei due protagonisti le cui strade si sono nel frattempo divise), si cerca di trovare il fil rouge perduto.

I due attori al centro dell’azione sono Woody Harrelson e Matthew McConaughey. Prima di parlare della loro performance è necessario chiarire un punto: la loro grandezza è tutta nelle pieghe della loro recitazione in lingua originale. Se Harrelson mantiene la propria cifra stilistica che è sempre tra il repellente e il viscido, tra il beffardo e il cinico, McConaughey invece si consegna ai posteri mediante il delineamento allucinato di un personaggio – che a differenza del suo sodale cambia molto nell’andirivieni tra passato e presente – e che ha trovato un proprio punto di rottura interiore, superandolo e varcando le soglie dell’orrore. Trascina la parlata, ha lo sguardo vuoto, ragiona sul filo incerto della memoria, entra ed esce da se stesso più volte e crea uno spaesamento che, sommato alla vicenda che sta al centro del plot, restituisce un’elicoidale e progressiva discesa in un girone infernale che pare essere privo di fine.

Le due serie successive, in ordine di preferenza, sono la numero tre e la numero due (solita mania dei produttori avidi che, visto il successo incredibile dell’esordio, hanno voluto spingere Pizzolatto in tempi brevi a creare subito mondi analoghi, sebbene in luoghi diversi), ma solo la prima rimane una pietra miliare. Uno dei pochi casi in cui non si ha la sensazione che la trama sia stata allungata e stiracchiata per avere più puntate, anzi lasciando l’attraente e al tempo stesso repulsiva sensazione che avremmo potuto assaggiare ancora un poco di quella torta avvelenata e marcia.

A un amico caro amante del thriller puro non basato solo sullo shock meramente visivo, direi senza nessun dubbio di concentrarsi immediatamente sulla prima serie di True Detective, raro caso di miracoloso equilibrio tra perfezione registica, attoriale, di ambientazione e di scrittura. Una pallottola dritta nel cuore. Inevitabile.

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