Shakespeare non è bello. Non è poetico. Shakespeare è la mente più meravigliosa del teatro di tutti i tempi. Shakespeare è uno spettacolo della natura come le cascate del Niagara o l’aurora boreale. Il Grand Canyon. Shakespeare è la vita, e la vita – se dev’essere una vita grandiosa – non è docile
Spero sia capitato anche a voi. C’è qualche libro che quando lo finisci, non solo vorresti ringraziarne l’autore per averlo scritto, ma vorresti anche contattare l’editore per averlo pubblicato, il tipografo per averlo stampato, il distributore per averlo promosso, il critico per averlo recensito, l’amico per avertelo consigliato e (scusate se inserisco la categoria a cui appartengo…) il libraio per avertelo venduto. Parlo del tipo di libro che ti fa entrare in una dimensione che non ti appartiene, che ti fa scoprire sentimenti che non sapevi di provare, conoscere realtà lontane dalla vita che conduci.
Non so quanto gliene importi a Ethan Hawke del mio entusiasmo per il suo romanzo Un raggio di buio, ma più che farlo sapere a lui, vorrei che lo sapeste voi che leggete queste righe.
Un raggio di buio, è un’apologia del teatro, un’immersione vera e propria nel mondo di questa nobile arte, raccontando la vita di un attore dall’interno. A Brodway! I preparativi, i tempi, le prove, le dinamiche, ma anche la ripetitività, le motivazioni e le incertezze di questo mestiere.
Aspetti che da semplici spettatori, non sempre si riescono a cogliere.
Da uno degli attori/registi più amati della scena statunitense arriva un romanzo autobiografico e corale che racconta con onestà, ironia e autentico brio narrativo la tensione fra la vita privata e l'immagine pubblica, fra il narcisismo e il desiderio di incontro con l'altro; e alla possibile disumanità della fama e del successo contrappone la potenza della creazione artistica individuale e collettiva.
Il primo giorno di prove per uno spettacolo teatrale è sempre fatto delle stesse cose: ciambelle, caffè, succo d’arancia, matite, moduli del sindacato attori, chiacchiericcio nervoso, persone che non si vedevano da quell’allestimento noiosissimo di una piece di O’Neill nel 2004, l’elezione di un rappresentante sindacale, i discorsi del direttore di scena sulla puntualità e gli incidenti sul lavoro
William Harding è un famosissimo attore che entra nell’occhio del ciclone del gossip per aver tradito la moglie (ancor più nota rock-star) e si ritrova a dover gestire il divorzio, il rapporto coi figli, l’opinione pubblica che lo giudica un mostro, e la necessità di ricostruire i pezzi dell’esistenza che ha appena mandato all’aria.
La frustrazione lo sta portando all’interno di una parabola discendente di azioni che promettono solo il peggiorare le cose. E con questi presupposti, affrontare una produzione shakespeariana a Broadway, non sembra proprio la cosa più facile.
“Le produzioni shakespeariane sono solo di due tipi: o ti cambiano la vita, o fanno schifo. Punto. Perché se uno spettacolo non cambia la vita al pubblico… è un fallimento”, afferma il regista J.C. Callahan ai propri attori: “Siamo professionisti e artisti seri, e vogliamo dedicare la nostra vita a qualcosa che è più grande di noi stessi.”
Mentre il mondo gli sta crollando addosso, William si rende conto che il teatro rimane il “posto dove il mio corpo sa cosa fare”, un rifugio e un sostegno. L' Enrico IV è l’occasione per seguire la propria vocazione, dare il meglio di sé e ritrovarsi.
Nel recitare le battute di quel soldato, Hotspur, sentivo scorrermi dentro una brezza capace di lenire il bollore della rabbia… Il ritmo del testo mi affondava nelle viscere e saliva come acqua fresca… Quando nello spettacolo tutto fila liscio non c’è pensiero, non sei compiaciuto di quanto stai recitando bene, non esisti proprio, non ti ricordi neanche com’è andata… A volte il nervosismo di un altro attore, uno scintillio che gli compariva negli occhi, un gesto imbarazzato della mano, quasi spezzavano l’incantesimo… per un attimo uscivo dalla trance e notavo il mondo “reale”, ma nel giro di pochissimo il ritmo delle parole ricominciava a trascinarmi
Il rapporto con gli altri attori, il giudizio dei recensori, le lunghe attese in camerino aspettando il proprio turno di entrare in scena, il lavoro dell’attore su sé stesso (ops, ho citato il titolo di un saggio di Stanislavskij…), fino alle questioni più pratiche, danno a noi lettori quasi la sensazione di far parte della compagnia teatrale.
Ethan Hawke ha costruito un romanzo che celebra il teatro, ma ricorda anche l’importanza della passione, quella che da un senso alle nostre vite, ci identifica e ci salva quando siamo in difficoltà. E come fa dire al regista della pièce: “Ci importerà solo della bellezza. La bellezza che consiste nell’assoluta onestà. Esalteremo quanto c’è di meglio in ciascuno di noi, lo tireremo fuori e lo pianteremo sul palco; lo lasceremo crescere, e poi moriremo.”
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